Bruce Sterling - La matrice spezzata

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La matrice spezzata: краткое содержание, описание и аннотация

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È considerata l'opera che, insieme a Neuromante (1984) di William Gibson, ha dato inizio alla stagione della narrativa Cyberpunk.
Definito da Sterling stesso come il favorito tra i suoi libri, “La matrice spezzata” racconta di un mondo in cui l'umanità è divisa tra i rivoluzionari Shaper, favorevoli a un'umanità biologica, in lotta contro gli aristocratici Mechanist (che vorrebbero imporre il dominio della macchina) per il definitivo controllo del genere umano. Il volume comprende un romanzo e cinque racconti pubblicati tra il 1982 e il 1984, ambientati nello stesso sfondo fanta-storico e che costituiscono una sorta di minisaga, quasi una summa dell'intenso universo sterlinghiano.
Nominato per il premio Nebula per miglior romanzo in 1985, premio BSFA in 1986.

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Lottò per guardare se stesso: non riusciva a flettersi in avanti, ma la sua schiena s’inarcò con fantastica facilità e i suoi occhi privi di palpebre fissarono le piastre corazzate coperte da uno spesso strato di pelliccia intersegmentale. Un paio di organi rugosi si sporgevano all’infuori dalla sua schiena all’estremità di peduncoli. Sfregò il proprio muso contro di essi, e d’un tratto, con una sensazione di vertigine, sentì l’odore del giallo. Allora tentò di urlare. Ma non aveva niente con cui urlare.

Ripiombò pesantemente all’indietro contro la fredda roccia. L’istinto ebbe il sopravvento, e attraversò di corsa, a capofitto, acri di pietra porosa e granulosa, verso la sicurezza dell’oscurità di un cornicione sporgente e una scacchiera di sbarre rose dalla ruggine, simile a una rastrelliera. Perse il senso delle proporzioni mentre se ne stava lì rannicchiato, vacillando sotto un’improvvisa, angosciante intuizione, e si rese conto di essere minuscolo, infinitesimale, rimpicciolito da quei titanici blocchi di pietra, ma dovevano anch’essi essere piccoli, talmente piccoli che…

Saggiò la pietra porosa raschiandovi sopra con l’estremità del suo artiglio anteriore flessibile. Era solida, d’una massiccia durevolezza che era sopravvissuta agli eoni indifferenti, tinta dalla sottile polvere di giganteschi, gementi macchinari, i quali avevano superato il punto di utilità con lo stesso esaurirsi degli ultimi granelli.

Poteva sentire l’odore dell’età, perfino percepirla come una specie di pressione, una sorta di paura. Era enorme, inamovibile, e lui d’un tratto pensò all’acqua. L’acqua che si muoveva ad alta velocità era dura come l’acciaio. Allora la sua mente partì a razzo, e pensò a questa reciproca identificazione di velocità e sostanza, all’energia cinetica degli atomi che dava forma alla pietra dura, una pietra che in realtà era spazio vuoto, vibrazioni, quanti. Divenne conscio dei più piccoli dettagli dentro la pietra, d’un tratto quella superficie non fu altro che fumo ghiacciato, una dura nebbia pietrificata da eoni imprigionati. Al di sotto della superficie, un livello ancora più sottile, un succedersi di dettagli in altri dettagli, via via, in un’ossessiva ragnatela in continua recessione.

Venne attaccato. Il nemico gli fu sopra. Sentì un’improvvisa, orrenda lacerazione quando gli artigli gli si conficcarono addosso dall’alto, il dolore alieno s’ingarbugliò nella traduzione da un sensorio all’altro, intasando il suo cervello di nera nausea e paura. Stramazzò pesantemente, in preda ad una mortale convulsione, il suo volto… il suo volto si spaccò in un’estrusione da incubo di mandibole affilate come rasoi, colse una gamba e la troncò all’articolazione; sentì l’odore di una rabbia e di un dolore roventi e la fulgida, incandescente radiosità dei propri succhi che esplodeva, e poi il gelo, lo sgocciolio, la scintilla luminosa che si spegneva per diventare un tutt’uno con l’antica pietra e l’età e il buio…

I microfoni esterni del suo casco colsero la voce di Constantine e la trasmisero ai suoi nervi: — Abelard.

La gola di Lindsay era piena di ruggine. — Ti ascolto.

— Sei vivo?

Il blocco nervoso del suo collo si era semidissolto, e sentì il proprio corpo privo di sostanza come gas caldo. Cercò a tentoni la striscia di dischi dermici accanto alla sua mano: al tatto la plastica perforata sembrò sottile come un nastro. Staccò un altro disco con le dita e lo premette in maniera scoordinata contro la base del suo pollice. — Dobbiamo provare di nuovo.

— Cos’hai visto, Abelard? Devo saperlo.

— Corridoi. Muri. Pietre scure.

— E abissi? Abissi neri di niente, più grandi di Dio?

— Non posso parlare. — La nuova dose stava facendo effetto, la lingua si stava sfaldando, un groviglio di supposizioni irrilevanti infrante da un dubbio improvviso, fasci di grammatica ridotti in polpa vischiosa sotto l’impatto della droga. — Di nuovo.

Era tornato, adesso poteva sentire il nemico, avvertire la sua presenza come un debole e lontano prurito. La luce era più chiara, enormi sciabolate radiose filtravano attraverso i massi di pietra talmente marciti per l’età da essere sottili come un tessuto. Si passò meticolosamente l’estremità degli artigli sui palpi intorno alla sua bocca, ripulendoli dall’umido sudiciume. Provò una sensazione di fame così intensa che le squame parvero saldarsi le une alle altre, e si rese conto che lo stimolo a vivere e a uccidere era enorme almeno quanto le volte di pietra intorno a lui.

Trovò il nemico accosciato dentro un cul-de-sac fra un ponte impietosamente fatiscente e le sue travature di sostegno. Sentì l’odore della paura.

La posizione del nemico era sbagliata. Si teneva aggrappato alla parete in una falsa prospettiva, poiché percepiva l’interminabile orizzonte come un abisso di frantumazione. L’abisso sottostante era eterno, un caos di pareti, camere, pianerottoli, che si autoreplicavano, costruiti dal nulla, una terrificante ramificazione dell’infinito.

Attaccò, mordendo in profondità le placche dorsali. Il sapore di quella calda trasudazione lo mandò in delirio. Il nemico colpì a sua volta, affondando, spingendo, pallidi artigli graffiavano la roccia. Le sue fauci si staccarono dal dorso del nemico, strappando e lacerando. Il nemico lottò per spingerlo via, per ricacciarlo indietro dentro l’orizzonte. Per un momento fu colto dalla prospettiva stessa del nemico. Seppe d’un tratto che, se fosse caduto, sarebbe caduto per sempre. Nell’abisso, precipitando dentro il proprio terrore e la propria sconfitta, senza fine, attraverso quel labirinto autorotante, la mente pietrificata in un’angoscia senza confini, un dedalo d’interminabile esperienza, interminabile paura, d’implacabili muri, corridoi, gradini, rampe, cripte, volte, passaggi, sempre gelidi, sempre fuori della sua portata.

Scivolò indietro. Il nemico era disperato, cercava convulsamente di riprendersi, galvanizzato dal dolore. I suoi stessi artigli stavano scivolando. La pietra lo respingeva, diventava più liscia. D’un tratto ci fu uno spiraglio, e vide il mondo per quello che era. Allora i suoi artigli scivolarono dentro, con una facilità da fantasma, e la pietra slittò da parte come fumo.

Poi si trovò ancorato. Il nemico lo spingeva impotente, inutilmente. Assaporò l’improvviso fiotto di disperazione quando il nemico si voltò per fuggire.

Subito l’agguantò e lo bloccò, lacerandolo. Un miasma di polvere e di terrore esplose dalle carni del nemico. Lo strappò dal muro, lo serrò fra gli artigli in preda ad un orgasmo di odio e di vittoria… e lo scagliò dentro l’abisso.

PARTE TERZA

Muoversi in clade

8

Repubblica Culturale Neotecnica
17-6-’91

I sogni erano piacevoli: sogni di calore e di luce, la vita di un animale, un eterno presente.

La coscienza tornò, accompagnata da un formicolante dolore, come del sangue che affluisse dentro una gamba da tempo intorpidita. Lottò per riunificare se stesso, per assumersi il fardello di essere di nuovo Lindsay, e il dolore del procedimento lo spinse ad artigliare l’erba, schizzando di terriccio la sua pelle nuda.

Il caos ruggiva tutt’intorno a lui: la realtà nella sua forma più grezza, una confusione ronzante, accecante. Giacque supino sull’erba, ansando. Sopra di lui il mondo tornò a fuoco: una luce verde e bianca, una bruna cornice di rami. La concretezza si riappropriò del mondo. Vide un virgulto vivo di foglie intrecciate e ramoscelli: una forma d’una bellezza talmente fantastica che fu sopraffatto dalla meraviglia. Si sollevò e scivolò verso il tronco ruvido dell’albero, trascinando le sue carni nude in mezzo all’erba liscia. Buttò le braccia intorno all’albero e appoggiò la guancia barbuta contro la corteccia.

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