Bruce Sterling - La matrice spezzata

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È considerata l'opera che, insieme a Neuromante (1984) di William Gibson, ha dato inizio alla stagione della narrativa Cyberpunk.
Definito da Sterling stesso come il favorito tra i suoi libri, “La matrice spezzata” racconta di un mondo in cui l'umanità è divisa tra i rivoluzionari Shaper, favorevoli a un'umanità biologica, in lotta contro gli aristocratici Mechanist (che vorrebbero imporre il dominio della macchina) per il definitivo controllo del genere umano. Il volume comprende un romanzo e cinque racconti pubblicati tra il 1982 e il 1984, ambientati nello stesso sfondo fanta-storico e che costituiscono una sorta di minisaga, quasi una summa dell'intenso universo sterlinghiano.
Nominato per il premio Nebula per miglior romanzo in 1985, premio BSFA in 1986.

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— Non ne sai neanche la metà — rispose Gomez. — Prendi per esempio esempio la scuola… La scuola, qui, è una completa anticaglia. Ci fanno leggere il libro di Lindsay, Shakespeare lo chiamano. Tradotto in inglese moderno da Abelard Lindsay.

— È così brutto? — chiese Lindsay, avvertendo un vago prurito di déjà vu.

— Sei fortunato, vecchio. Non c’è bisogno che tu lo legga. Io, me lo son dovuto scolare tutto. Non c’è una sola parola, là dentro, sull’organizzazione spontanea.

Lindsay annuì. — È un vero peccato.

— Tutti sono vecchi, in quel libro. Non intendo falsovecchio come i preservazionisti di qui. O strambo-vecchio come il vecchio Pong.

— Vuoi dire Pongpianskul? — domandò Lindsay.

— Il Custode, sì. No, voglio dire, tutti vengono usati troppo in fretta. Tutti bruciati, paralizzati e malati. È deprimente.

Lindsay annuì. Decise che le cose avevano completato il cerchio. — Ti risenti per il controllo che viene esercitato sulla tua vita — azzardò. — Tu e i tuoi amici siete radicali. Tu vuoi cambiare le cose.

— No davvero — replicò il ragazzo. — Qui mi avranno solo per sessant’anni. E poi io ne avrò centinaia a disposizione, cugino. Voglio dire… per fare grandi cose. Ci vorrà un sacco di tempo, sì. Voglio dire, grandi cose. Gigantesche. Non come quella gente disidratata del passato.

— Che genere di cose?

— Spargere la vita sui pianeti, grandi raccolti. Edificare mondi. Terraformarli.

— Capisco — annuì Lindsay. Era sorpreso di trovare tanta determinazione in un individuo così giovane. Doveva essere l’influenza dei cataclisti. Avevano sempre favorito progetti inverosimili, pazzie che alla fine si erano risolte in una bolla di sapone. — E questo ti farà felice?

Il ragazzo lo fissò insospettito. — Sei uno di quegli Zen Serotonisti? Felice? Che razza d’imbroglio sarebbe! Che la felicità bruci, cugino. È il cosmo che parla. Sei dalla parte della vita oppure no?

Lindsay sorrise. — È politica. Non mi fido della politica.

— Politica? Sto parlando di biologia. Creature che vivono e crescono, organismi. Forme integrate.

— E dove entra in scena la gente?

Il ragazzo agitò la mano irritato e agguantò al volo l’aquilone quando scese in picchiata.

— Quella lasciala perdere. Adesso sto parlando di lealtà fondamentali. Come quell’albero. Sei dalla sua parte, contro gli inorganici?

Lindsay aveva ancora fresca in mente la propria epifania. — Sì — replicò. — Lo sono.

— Allora capisci qual è il motivo per terraformare.

— Ter-ra-for-ma-re? — Lindsay scandì le sillabe. — Ho ascoltato le teorie. Le ipotesi. E suppongo sia possibile. Ma cosa ha a che fare con noi?

— Un autentico impegno al fianco della Vita esige l’atto morale della creazione — dichiarò Gomez, pronto.

— Qualcuno ti ha insegnato degli slogan — commentò Lindsay. Sorrise. — I pianeti sono luoghi veri e propri, non soltanto dei grafici su un tavolo da disegno. Lo sforzo sarebbe titanico. Completamente al di fuori della scala delle misure umane.

Il ragazzo mostrò impazienza. — Tu, quanto sei grande? Sei più grande di qualcosa di inerte.

— Ma ci vorrebbero secoli…

— Pensi che quell’albero esiterebbe? Comunque, tu, quanto tempo hai?

Lindsay non riuscì a trattenere una risata.

— Bene, allora. Hai intenzione di vivere una piccola vita umana striminzita, oppure intendi aggredirne il potenziale?

— Alla mia età — rispose Lindsay — se fossi umano sarei già morto.

— Adesso sì che parli sul serio. Tu sei grande quanto i tuoi sogni. È quello che dicono a Czarina-Kluster, non è vero? Nessuna regola, nessun limite. Guarda i Mech e i Plasmatori. — Il tono del ragazzo era sprezzante. — Hanno tutto il potere che c’è al mondo, e si braccano fra loro. Che brucino le loro guerre e la loro ideologia da nanerottoli! La postumanità è più grande di questo! Chiedilo alla gente là dentro. — Il ragazzo agitò la mano verso il recinto. — Progettare l’ecosistema. Ricostruire la vita per le nuove condizioni. Un po’ di biochimica, un po’ di fisica dei grandi numeri… puoi coglierne un po’ qua, un po’ là, è questo che è eccitante. È il genere di cose sulle quali lavorerebbe oggi Abelard Lindsay se fosse vivo.

L’ironia della cosa punse Lindsay sul vivo. Anche lui all’età di Gomez non aveva mai avuto un briciolo di buon senso. Provò un improvviso allarme per il ragazzo, un impulso a proteggerlo dal disastro che la sua retorica gli avrebbe sicuramente causato. — Lo pensi?

— Sicuro. Dicono che fosse il tipico preservazionista focoso, ma si fece cane solare quando le cose andavano bene, no? Non lo si è visto bighellonare qui intorno per “morire di vecchiaia”. Ma, comunque, non lo fa nessuno.

— Neppure qui? Nella dimora dei preservazionisti?

— Naturalmente no. Qui, tutti quelli che hanno più di quarant’anni si sono assicurati il prolungamento della vita al mercato nero. Quando arriveranno ai sessanta, fuggiranno da Czarina-Kluster. Ai cicada non gliene importa niente della tua storia e dei tuoi geni. Prendono ogni genere di clade. I sogni hanno più importanza.

I sogni, pensò Lindsay. I sogni del preservazionismo trasformati in una corsa al mercato nero dell’immortalità. Il sogno della Pace degli Investitori si era arrugginito e sfasciato. Il sogno del “terraforming” aveva ancora un suo splendore. Il giovane Gomez non poteva sapere che anch’esso si sarebbe certamente ossidato.

Ma, pensò Lindsay, in qualche modo bisognava sognare, o morire. E con la nuova vita che si stava riversando nel suo corpo, sapeva qual era la sua scelta.

Margaret Juliano si sporse sopra il recinto. — Abelard! Abelard, da questa parte! Devi dare un’occhiata qui.

Il ragazzo, colto di sorpresa, quasi inciampò cadendo a terra. — Adesso, questa sì che è una fortuna! Quella vecchia psicotech vuol farmi vedere qualcosa nel recinto.

— Vai a vedere — lo sollecitò Lindsay. — Dille che ho detto che ti mostri qualunque cosa tu voglia, capito? E dille anche che sono andato a fare una chiacchieratina con Pongpianskul. Va bene, cugino?

Il ragazzo annuì lentamente. — Grazie, vecchio cicada. Sei uno di noi.

L’ufficio di Pongpianskul era una desolazione cartacea. Volumi muffiti rilegati in tela che contenevano tutte le leggi della Concatenazione erano ammucchiati accanto alla sua scrivania di legno. Programmi e grafici sulla produttività erano attaccati a casaccio con puntine agli antichi pannelli della stanza.

Un gatto dalla pelliccia che pareva il guscio d’una tartaruga sbadigliava in un angolo, affilandosi gli unghioli sul tappeto. Lindsay, che aveva una limitata esperienza con i gatti, l’osservò diffidente.

Pongpianskul indossava un vestito simile a quello di Lindsay, ma nuovo, ed era ovvio che era stato cucito a mano. Aveva perso parecchi capelli (ma già cominciava a perderli nei lontani giorni di Goldreich-Tremaine) e la luce illuminava, opaca, il suo scuro e glabro cuoio capelluto.

Raccolse un fascio di documenti dalla scrivania e li chiuse in un gancio con le dita scarne e rugose.

— Carte — borbottò. — Al giorno d’oggi cercano di togliere tutto ai computer. Non si fidano dei computer. Tu li usi, e c’è sempre qualche mech pronto a intervenire con del nuovo software. Trascurabile oggi, importantissimo domani. Mavrides… Lindsay, voglio dire.

— Lindsay è meglio.

— Devi ammettere che è difficile seguirti. È stato un bell’imbroglio il tuo. Farti passare per un genetico anziano là negli Anelli. — Sbirciò Lindsay. Lindsay colse parte di quell’occhiata. L’esperienza dell’età compensava in qualche modo la sua perdita dell’addestramento muscolare.

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