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Эд Гринвуд: Elminster: il viaggio

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Эд Гринвуд Elminster: il viaggio

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Era il tempo in cui il magnifico regno elfo di Cormanthor era dominato dai barbari, draghi malefici governavano i cieli e gli abitanti non nutrivano più fiducia in nessuno. Maghi e guerrieri minacciavano i regni poiché mossi dalla loro arrogante e rozza ignoranza anelavano alla gloria. Accadde in quel tempo che, dopo un interminabile viaggio, Elminster giungesse a Cormanthor, alle Torri del Canto, regno di Eltargrim. In quel luogo Elminster visse per più di dodici estati, dedicandosi allo studio della magia, imparando, grazie all'aiuto di una congrega di maghi sapienti, ad avvertire dentro di sé la forza della magia e a farvi ricorso per dominare il male...

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Fiamme candide come lingue di neve si innalzarono verso il soffitto spaccato della Camera della Corte, mentre i corpi degli individui dentro il cerchio vennero improvvisamente avvolti da un fuoco bianco.

I cormanthoniani accalcati nella sala emisero all’unisono un mormorio di sorpresa.

«Che cosa accade? Stanno morendo?», urlò Lady Duilya Evendusk, torcendosi le mani. Il marito appoggiò le mani sulle spalle per rassicurarla, mentre Beldroth si protendeva verso la donna e le sussurrava: «Mythanthar è morto, o almeno, il suo corpo. Egli diverrà il nostro Mythal, quando tutto sarà terminato».

«Che cosa?», elfi si accalcarono da ogni direzione per ascoltare.

Beldroth sollevò il capo e alzò la voce per informare tutti: «Gli altri dovrebbero rimanere in vita, malgrado l’incantesimo stia assorbendo parte delle loro energie vitali. Presto inizieranno a intrecciare poteri speciali e cominceremo a sentire un sorta di ronzio, o di canto».

L’elfo sollevò nuovamente lo sguardo alla rete arcuata di fuoco bianco, e senti le lacrime scorrergli sul volto. Una mano piccola si insinuò nella sua, e gli diede una stretta rassicurante. Abbassò gli occhi e vide una bambina sconosciuta, dal viso solenne, sorridente. Beldroth le restituì la stretta in segno di ringraziamento, e continuò a tenerle la mano.

In una piccola radura, accanto a una fontana che si gettava ininterrottamente in una piscina di pesci danzanti, Ithrythra Mornmist si drizzò improvvisamente e guardò il marito.

La sua sfera magica e i fogli che teneva sulle ginocchia finirono per terra quando l’elfo si alzò. Anzi, quando levitò da terra, con gli occhi fissi su un punto distante!

«Che cosa c’è, Nelaeryn?» gridò Ithrythra, correndo verso di lui. «Non ti senti bene?»

«Oh, sì», ansimò Lord Mornmist, lo sguardo sempre fisso nel nulla. «Oh, dei, sì. È magnifico! È stupendo!»

«Che cosa?», urlò la moglie. «Che cosa sta succedendo?»

«Il Mythal», rispose Nelaeryn Mornmist, la voce quasi rotta dal pianto. «Oh, come abbiamo potuto essere tanto ciechi ? Avremmo dovuto farlo secoli fa!»

E poi l’elfo iniziò a cantare una melodia infinita, priva di parole.

Ithrythra lo fissò per qualche minuto, la faccia pallida e preoccupata. Il marito si sollevò un po’ più in alto, i piedi nudi oltre il mento della donna, che, improvvisamente spaventata gli afferrò le caviglie, e vi rimase aggrappata.

Il canto la pervase, e con esso tutte le sensazioni che il marito stava provando. E fu così che Ithrythra Mornmist fu il primo elfo non-mago in Cormanthor a sentire il mythal. Quando un servo li trovò qualche minuto più tardi, Lady Mornmist era abbarbicata attorno ai piedi del marito, tremante e in estasi.

Alaglossa Tornglara si irrigidì e si mise a sedere sul bordo della Danza del Satiro, grondando acqua da ogni curva del corpo. «Sta accadendo qualcosa. Riesci a sentirlo?» domandò alla serva inginocchiata accanto a lei con profumi e spazzole.

La ragazza non rispose. Formicolante fin nella punta delle dita, Lady Tornglara si voltò bruscamente per ottenere una risposta, e rimase di sasso.

La serva fluttuava nell’aria, ancora inginocchiata con una bottiglia di profumo in mano, lo sguardo fisso. Minuscole scintille ammiccavano intorno ai suoi occhi, le entravano e le uscivano dalla bocca aperta. La giovane iniziò a gemere, come eccitata, dopodiché il suono emesso dalla sua gola si trasformò in una canzone muta e infinita.

Alaglossa iniziò a gridare e, quando la serva – Nlaea era il suo nome, sì, decisamente – cominciò a salire più in alto, si alzò sulle punte dei piedi e l’afferrò per un braccio.

Il servo che udì lo strillo e fece di corsa il lungo percorso tra i giardini, raggiunse ansimante la piscina, e rimase a guardarle: la serva fluttuante e la padrona, gli occhi spalancati e fissi nel vuoto. Erano entrambe nude, e stavano mormorando una canzone. Le osservò nei più intimi dettagli, deglutì, poi corse via. Sarebbe finito nei guai se fossero rinsavite e l’avessero colto a guardarle.

L’elfo scosse il capo più di una volta e tornò al suo lavoro d’annaffiatura.

Galan Goadulphyn imprecò e si tastò in cerca dei pugnali. Era proprio scalognato: a due passi dalla città, con tutte le gemme nane che riuscivano a contenere i suoi stivali, in che cosa si doveva imbattere? In una pattuglia elfa! Diede un’occhiata agli alberi alle sue spalle, già sapendo che non si sarebbe potuto nascondere, anche se fosse stato sufficientemente rapido da seminarli. Con uno sforzo abbandonò la sua andatura stanca e strascicata e assunse un’aria da gran signore.

«Ehilà, guardie! Ci sono novità?»

«Alto là, umano», esclamò serio l’armathor più vicino. «La città verrà aperta domani a mezzogiorno, se tutto va bene. Fino ad allora, non potrai spingerti oltre».

Incredulo, Galan inarcò un sopracciglio, e poi si levò la sciarpa sudicia dalla testa. E con essa si staccarono, piuttosto dolorosamente, anche i falsi basettoni lungo le guance.

«Vedete queste?», esclamò, spostando avanti e indietro una delle orecchie con un dito sudicio. «Non sono umano».

«Per la verità, dall’aspetto non sembrate nemmeno un elfo», rispose l’armathor con occhi severi. «Abbiamo visto altre volte doppelganger».

«Basta con gli scherzi da vecchie comari», ribatté Galan, ondeggiando i fianchi. Il capitano gli lanciò un’occhiataccia, mentre il resto della pattuglia scoppiò a ridere. «Intendete dire che finalmente hanno fatto funzionare quel mythal? Dopo tutti questi anni?»

Le guardie si scambiarono alcuni sguardi. «Dev’essere un cittadino», affermò una di loro. «Dopotutto nessun altro ne è al corrente».

«Bene, potete passare», esclamò riluttante il capopattuglia. «Vi suggerisco di trovare un luogo per lavarvi», aggiunse.

Galan si drizzò. «Perché? Se avete intenzione di lasciar entrare gli umani , che importanza ha? Hmmmph. Tra un po’ mi direte che i nani governano la città!»

«Proprio così», ribatté l’armathor, tra i denti. «E ora fuori dai piedi!»

Galan gli fece un allegro cenno di saluto. «Grazie, “mio prode ‘» esclamò con disinvoltura, poi sfilò un rubino grande come un acino d’uva dallo stivale destro, e lo porse alla guardia sbalordita. «Questo è per il disturbo».

Mentre procedeva verso la città, Galan fischiettò allegramente. Quel gesto – per tutti gli dei, che espressione avevano i loro volti ! – era valso un rubino. Be’, mezzo rubino. Diamine, era forse troppo tardi per tornare a riprenderselo?

Uldreiyn Starym risalì la sottile linea di fuoco creata dal suo meticoloso incantesimo, toccò la rete di fuoco bianco, e si lasciò trasportare da essa. Una grande ondata di potere lo investì.

Mentre saettava lungo i suoi fili, il mago sottrasse qua e là fiamme e filamenti e si creò un mantello col quale mimetizzarsi.

Era uno dei maghi più potenti di tutta Cormanthor, e se il vacillante Mythanthar poteva tessere tutto ciò, allora l’anziano Lord Starym poteva dominare il suo operato, avvolgersi in esso, e nascondere la sua identità mentre percorreva quei filamenti bianchi, scintillanti attraverso la città e giù, giù verso il buco aperto nel tetto di Corte.

Il suo corpo era ancora adagiato sulla sedia nella stanza custodita dai draghi, nella torre più alta di Casa Starym, quella che si ergeva un po’ in disparte. Abbandonarlo lo rendeva vulnerabile: d’altro canto, era certo che quei «tessitori» in estasi non lo avrebbero notato finché non avesse fatto qualcosa di eclatante che, naturalmente, era il suo obiettivo.

Anche un bambino era in grado di cavalcare un incantesimo vorticante, una volta mostratogli come fare, ma egli desiderava compiere molto, molto di più. In un mondo in cui quelli come Ildilyntra Starym morivano e i poppanti stupidi come Maeraddyth dovevano esser tenuti in vita, ci si doveva fare giustizia da sé.

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