Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Il sole tramontò. Venne la notte, serena e fredda. Le stelle si affacciarono, nitide. Il tamburo batteva come un cuore lento, ritmando i colpi dei remi, perché non c’era alito di vento. Il freddo diventò il tormento peggiore. La schiena di Arren assorbiva un po’ di tepore dalle gambe dell’uomo che gli stava dietro, il suo fianco sinistro dal muto che gli sedeva accanto, aggobbito, canticchiando un motivo borbottante, su una nota sola. I rematori cambiarono turno; il tamburo riprese a rullare. Arren aveva desiderato l’oscurità, ma non poteva dormire. Gli dolevano le ossa, e non poteva cambiare posizione. Restò seduto, dolorante e tremante, assetato, guardando le stelle che sobbalzavano nel cielo a ogni colpo di remi, scivolavano di nuovo al loro posto, restavano immote, sobbalzavano di nuovo, scivolavano, si soffermavano…

L’uomo con il collare e un altro stavano fra la stiva di poppa e l’albero maestro: la piccola lanterna oscillante appesa all’albero gettava bagliori in mezzo a loro e ne profilava le teste e le spalle. — Nebbia, vescica di porco — disse la voce debole e odiosa dell’uomo dal collare. — Cosa ci fa la nebbia nello Stretto Meridionale in questa stagione? Maledetta sfortuna!

Il tamburo rullava. Le stelle sussultavano, scivolavano, si soffermavano. Accanto ad Arren, l’uomo senza lingua rabbrividì all’improvviso e alzò la testa lanciando un urlo d’incubo, un suono terribile e informe. — Zitto, là! — ruggì il secondo uomo accanto all’albero. Il muto rabbrividì ancora e tacque, muovendo le mascelle come se masticasse.

Furtivamente, le stelle scivolarono avanti, nel nulla.

L’albero fremette e svanì. Una fredda coltre grigia sembrò cadere sul dorso di Arren. Il tamburo mancò un colpo e poi riprese il ritmo, ma più lento.

Nella nebbia non c’era la sensazione del movimento in avanti, solo il dondolio e la strappata dei remi. Il ritmo del tamburo si era smorzato. Era freddo e umido. La nebbia, condensandosi nei capelli di Arren, gli scorreva negli occhi: lui cercò di afferrare le gocce con la lingua e respirò l’aria umida con la bocca aperta, tentando di placare la sete. Ma gli battevano i denti. Il freddo metallo di una catena gli dondolava contro le cosce, e al contatto bruciava come fuoco. Il tamburo batté, e batté, e tacque.

Silenzio.

— Continua a suonare! Cosa succede? — ruggì la voce roca e bisbigliante dalla prua. Nessuna risposta.

La nave rollava leggermente sul mare tranquillo. Al di là degli indistinti parapetti non c’era nulla: il vuoto. Qualcosa stridette contro la fiancata della nave. Il rumore echeggiò in quel silenzio strano e morto, in quell’oscurità. — Abbiamo toccato fondo — mormorò uno dei prigionieri, ma il silenzio si chiuse sulla sua voce.

La nebbia divenne luminosa, come se vi fiorisse una luce. Arren vide chiaramente le teste degli uomini incatenati accanto a lui, le minuscole gocce di umidità che luccicavano nei loro capelli. La nave ondeggiò di nuovo, e Arren si alzò per quanto glielo permettevano le catene, allungando il collo per vedere più avanti. La nebbia risplendeva sul ponte, come la luna dietro nuvole sottili, fredda e radiosa. I rematori erano seduti, immobili come statue. I membri della ciurma erano nella parte centrale della nave, e i loro occhi scintillavano lievemente. Solo, a babordo, stava un uomo: ed era da lui che s’irradiava la luce, dal volto e dalle mani e dal bastone che ardevano come argento fuso.

Ai piedi dell’uomo risplendente stava accovacciata una forma scura.

Arren tentò di parlare, senza riuscirvi. Abbigliato della maestà della luce, l’arcimago gli si avvicinò e s’inginocchiò sul ponte. Arren sentì il tocco della sua mano, udì la sua voce. Sentì le strisce di ferro ai polsi e alla vita cedere: in tutta la stiva vi fu un tintinnio di catene. Ma nessuno si mosse. Soltanto Arren cercò di alzarsi; ma non vi riuscì, intorpidito com’era dalla lunga immobilità. La forte mano dell’arcimago gli strinse il braccio; con quell’aiuto, uscì dalla stiva e si rannicchiò sul ponte.

L’arcimago si allontanò da lui, e lo splendore nebuloso brillò sulle immobili facce dei rematori. Si arrestò accanto all’uomo che stava accovacciato vicino al parapetto di babordo.

— Io non punisco — disse la voce chiara e dura, fredda come la fredda luce incantata nella nebbia. — Ma in nome della giustizia, Egre, io mi assumo questa responsabilità: comando alla tua voce di tacere fino al giorno in cui troverai una parola degna di essere pronunciata.

Ritornò da Arren e l’aiutò ad alzarsi in piedi. — Adesso vieni, ragazzo — disse; e Arren, sorretto da lui, riuscì ad avanzare barcollando e a lasciarsi cadere nella barca che ondeggiava sotto la fiancata della nave: la Vistacuta , con la vela che spiccava nella nebbia come l’ala di una falena.

Nello stesso silenzio, nella stessa calma morta, la luce si estinse, e la barca virò e si allontanò dalla fiancata della nave. Quasi immediatamente la galea, la fioca lanterna appesa all’albero maestro, i rematori immobili, la nera fiancata incombente, scomparvero. Arren credette di udire voci che prorompevano in grida, ma era un suono troppo esile e subito si perse. Dopo un poco, la nebbia cominciò a diradarsi e a disperdersi nel buio. Emersero le stelle; e silenziosa come una farfalla, la Vistacuta volò nella notte chiara, sul mare.

Sparviero aveva avviluppato Arren nelle coperte e gli aveva dato acqua da bere; era seduto, con la mano sulla spalla del ragazzo, quando quest’ultimo scoppiò improvvisamente a piangere. Sparviero non disse nulla, ma c’era una gentile fermezza nel contatto della sua mano. Lentamente, Arren si sentì confortato: il calore, il leggero movimento della barca, la serenità del cuore.

Alzò gli occhi verso il compagno. Non c’era più il fulgore ultraterreno intorno al volto scuro. Riusciva a malapena a distinguerlo contro lo sfondo delle stelle.

La barca continuava a volare, guidata dall’incantesimo. Le onde mormoravano contro le sue fiancate, quasi stupite.

— Chi è l’uomo dal collare?

— Sta’ calmo. Un predone del mare, Egre. Porta quel collare per nascondere una cicatrice, un taglio alla gola. Sembra che abbia cambiato mestiere, passando dalla pirateria al commercio degli schiavi. Ma questa volta ha catturato il cucciolo d’orso. — C’era un’eco di soddisfazione nella voce quieta e asciutta.

— Come mi hai trovato?

— Magia, corruzione… Ho perso tempo. Non volevo che si risapesse che l’arcimago, il Custode di Roke, si aggirava come un furetto tra le catapecchie di Città Hort. Avrei voluto conservare ancora il mio travestimento. Ma dovevo rintracciare quest’uomo e quello, e quando finalmente ho scoperto che il mercante di schiavi era salpato prima del levar del sole ho perso la calma. Ho preso la Vistacuta e ho pronunciato la parola che ha portato il vento nella sua vela, con la bonaccia, e ho inchiodato agli scalmi i remi di tutte le navi in quella baia: per un po’, almeno. Come lo spiegheranno, se la magia è solo aria e menzogna, è affar loro. Ma nella fretta e nella collera ho superato la nave di Egre senza vederla: si era spinta a sudest per evitare gli scogli. Non ho fatto altro che sbagliare per tutta la giornata. Non c’è fortuna, a Città Hort… Be’, alla fine ho lanciato un incantesimo di ritrovamento, e così mi sono avvicinato alla nave nell’oscurità. Ma adesso non sarebbe meglio che tu dormissi?

— No, adesso mi sento molto meglio. — Una febbre leggera aveva preso il posto del freddo, e adesso Arren si sentiva veramente bene; fisicamente era illanguidito, ma la sua mente sfrecciava rapida da un pensiero all’altro. — Quando ti sei svegliato? Che fine ha fatto Lepre?

— Mi sono svegliato allo spuntar del giorno: e fortuna che ho la testa dura: dietro l’orecchio ho un bernoccolo e un taglio come un cocomero spaccato. Ho lasciato Lepre immerso nel sonno della droga.

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