Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Là, nell’immensa oscurità asciutta, c’era qualcuno che lo chiamava a cenni. Vieni , disse l’alto signore delle ombre. Nella mano reggeva una minuscola fiamma, non più grande di una perla: la protendeva verso di lui, offrendo la vita. Lentamente, Arren mosse un passo nella sua direzione, per seguirlo.

LUCE INCANTATA

Aveva la bocca secca, e piena di un sapore di polvere. Le sue labbra erano coperte di polvere.

Senza sollevare la testa dal pavimento, osservò il gioco delle ombre. C’erano le ombre grandissime che si muovevano e si piegavano, ingrandivano e rimpicciolivano; e altre, più fioche, che correvano svelte intorno alle pareti e al soffitto, irridendo quelle più grandi. C’erano un’ombra nell’angolo e un’ombra sul pavimento, e nessuna delle due si muoveva.

La nuca incominciava a dolergli. E nello stesso tempo, ciò che vedeva gli appariva chiarissimo, nella mente, in un unico bagliore cristallizzato in un istante: Lepre accasciato in un angolo, con la testa sulle ginocchia, Sparviero lungo disteso, riverso, e un uomo stava inginocchiato accanto a lui, e un altro gettava pezzi d’oro in una borsa, e un altro ancora stava in piedi e osservava. Il terzo uomo stringeva una lanterna in una mano e un pugnale nell’altra: il pugnale di Arren.

Anche se parlavano, lui non li udiva. Udiva soltanto i propri pensieri, che gli dettarono immediatamente, senza esitazioni, ciò che doveva fare. Subito eseguì. Si trascinò in avanti per un mezzo braccio con estrema lentezza, protese di scatto la mano sinistra e afferrò la borsa del bottino, balzò in piedi e si lanciò verso la scala con un grido rauco. Si precipitò giù per i gradini, nella cieca oscurità, senza mettere i piedi in fallo, come se stesse volando. Irruppe nella strada e corse via, a tutta velocità, nel buio.

Le case erano masse scure contro lo sfondo delle stelle. La fievole luce del cielo brillava sulla sua destra, e sebbene lui non potesse vedere dove conducevano le strade, riusciva a scorgere i crocicchi, e perciò poteva svoltare e ritornare indietro. Gli sconosciuti l’avevano seguito: li sentiva dietro di sé, non molto lontano. Erano scalzi, e il loro respiro ansimante era più rumoroso dei loro passi. Arren avrebbe riso, se ne avesse avuto il tempo: finalmente sapeva cosa si prova quando si è la selvaggina anziché il cacciatore, la preda anziché il capo della muta. Significa essere soli, e liberi. Deviò verso destra e corse, tenendosi chino, attraverso un ponte dal parapetto alto; s’infilò in una strada laterale, svoltò a un angolo, ritornò sul lungofiume e lo percorse per un tratto, poi attraversò un altro ponte. Le sue scarpe risuonavano rumorosamente sui ciottoli, ed era l’unico suono in tutta la città. Si fermò al riparo del ponte per slacciarle: ma le stringhe si erano ingarbugliate, e gli inseguitori non avevano perso le sue tracce. La lanterna scintillò, oltre il fiume; i passi pesanti e rapidi si avvicinarono. Non riusciva a liberarsene. Poteva soltanto distanziarli, continuare a correre, per condurli più lontano dalla stanza polverosa, sempre più lontano…

Gli avevano tolto la giubba, insieme al pugnale: era in maniche di camicia, leggero e accaldato, e gli girava la testa, e il dolore alla nuca diventava sempre più acuto a ogni passo, e lui correva e correva… La borsa lo intralciava. All’improvviso la gettò a terra, e un pezzo d’oro schizzò fuori e urtò le pietre con un tintinnio. — Ecco il vostro denaro! — gridò lui, con voce roca e ansimante. Continuò a correre. E all’improvviso la strada finì. Davanti a lui non c’erano né strade traverse né stelle: un vicolo cieco. Senza indugiare, girò su se stesso e corse incontro ai suoi inseguitori. La lanterna dondolava furiosamente davanti ai suoi occhi, e lui si avventò con un urlo di sfida.

C’era una lanterna che oscillava avanti e indietro, una fioca chiazza di luce in un grande grigiore in movimento. La guardò a lungo. Si affievolì, e finalmente un’ombra le passò davanti, e quando l’ombra sparì anche la luce era scomparsa. Lui se ne rammaricò, un poco; o forse si rammaricava per se stesso, perché sapeva che adesso doveva svegliarsi.

La lanterna, spenta, dondolava ancora dall’albero cui era agganciata. Tutt’intorno, il mare s’illuminava all’avvento del sole. Un tamburo rullava. I remi scricchiolavano pesantemente, regolarmente; il fasciame della nave strideva con cento piccole voci; un uomo, lassù, a prua, gridò qualcosa ai marinai che gli stavano dietro. Gli uomini incatenati insieme ad Arren nella stiva di poppa tacevano tutti. Ognuno portava una banda di ferro intorno alla vita, e manette ai polsi, collegati da una catena corta e pesante ai ceppi dell’uomo accanto; e la cintura di ferro era incatenata anche a una chiavarda fissata al ponte, in modo che l’uomo potesse stare seduto o accovacciato ma non alzarsi in piedi. Erano troppo vicini per sdraiarsi, stretti nella stiva poco spaziosa. Arren era nell’angolo anteriore di babordo. Se alzava la testa, i suoi occhi si trovavano all’altezza del ponte tra la stiva e il parapetto, che era largo mezzo braccio.

Non ricordava molto della notte precedente, dopo che era giunto nel vicolo cieco. Si era battuto ed era stato messo fuori combattimento, e legato e portato via. Aveva parlato un uomo dalla strana voce sussurrante; c’era stato un luogo che sembrava una fucina, col rosso e guizzante fuoco di una forgia… Non riusciva a rammentarlo. Ma sapeva che quella era una nave di razziatori di schiavi, e che l’avevano catturato per venderlo.

Tutto questo non significava molto, per lui. Aveva troppa sete. Era indolenzito in tutto il corpo, e gli faceva male la testa. Quando sorse il sole, la luce inviò lance di sofferenza nei suoi occhi.

A metà mattina ciascuno ebbe un quarto di pagnotta e una lunga sorsata da una borraccia di cuoio, accostata alle labbra da un uomo che aveva una faccia dura e spigolosa. Aveva il collo cinto da un’alta striscia di pelle borchiata come il collare di un cane, e quando Arren lo sentì parlare riconobbe la strana voce fievole e fischiante.

La bevanda e il cibo alleviarono per un poco la debolezza fisica e gli schiarirono la mente. Per la prima volta guardò in faccia i suoi compagni di schiavitù: tre nella sua fila e quattro più indietro. Alcuni stavano seduti, con la testa appoggiata alle ginocchia; uno era accasciato, sofferente o in preda all’effetto della droga. Quello al suo fianco era un giovane sulla ventina, con la faccia larga e piatta. — Dove ci portano? — gli chiese Arren.

Il giovane lo guardò — le loro facce distavano l’una dall’altra poco più di una spanna — e sogghignò scrollando le spalle, e Arren ritenne che intendesse far capire che non lo sapeva; ma poi agitò le mani incatenate, gesticolando, e aprì la bocca ancora sogghignante, mostrando una radice nera al posto della lingua.

— A Showl — disse uno, dietro Arren; e un altro: — Oppure al Mercato di Amrun. — E subito l’uomo dal collare, che sembrava onnipresente, si chinò sulla stiva sibilando: — Tacete, se non volete finire in pasto agli squali. — E tutti tacquero.

Arren cercò d’immaginare quei luoghi: Showl, il Mercato di Amrun. Là si vendevano schiavi. Li schieravano davanti ai compratori, senza dubbio, come i buoi o gli arieti in vendita sulla Piazza del Mercato di Berila. E lui sarebbe stato là, incatenato. Qualcuno l’avrebbe comprato e portato a casa e gli avrebbe dato un ordine, e lui avrebbe rifiutato di ubbidire. Oppure avrebbe ubbidito, e avrebbe tentato la fuga. E sarebbe stato ucciso, in un modo o nell’altro. La sua anima non si ribellava all’idea della schiavitù: era troppo sofferente e frastornato, per farlo. Semplicemente, sapeva di non poterlo fare; entro una settimana o due sarebbe morto, o sarebbe stato ucciso. Sebbene lo capisse e vi si rassegnasse, l’idea lo spaventava; perciò smise di pensare al futuro. Abbassò lo sguardo sul sudicio fasciame nero della stiva, tra i suoi piedi, e sentì il calore del sole sulle spalle nude, sentì la sete che gli inaridiva di nuovo la bocca e gli stringeva la gola.

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