Tenar sentì che la porta esterna della casera veniva spalancata. A uno di loro era venuto in mente di provare ad aprirla, prima di rompere i vetri della finestra, e non aveva incontrato resistenza. Si levò di nuovo il brusio delle loro voci. Poi scese il silenzio, che si protrasse a tal punto che Tenar, sentendo che il suo cuore batteva forte, pensò che quel battito avesse coperto tutti gli altri suoni. Le tremavano le ginocchia, e sentì il freddo del pavimento salirle lungo le caviglie come se fosse la mano di un morto.
«È aperto», mormorò qualcuno, a poca distanza da lei, e Tenar sentì il cuore accelerare i battiti. Posò la mano sul catenaccio, convinta che fosse aperto… che l’avesse aperto invece di chiuderlo. In preda alla confusione, stava già per aprirlo, quando sentì cigolare la porta tra la casera e la dispensa. Conosceva perfettamente quel rumore: era il cardine della porta, in alto. E aveva anche riconosciuto la voce. «È una dispensa», disse Faina, e poi, quando il catenaccio della porta chiusa da Tenar tintinnò contro l’anello: «Questa è chiusa». Altro tintinnio. Poi una sottile lama di luce, affilata come un coltello, guizzò tra la porta e lo stipite. Le toccò il petto, e Tenar si tirò indietro, come se fosse stata ferita.
Di nuovo quel rumore, ma la porta non si mosse. Era pesante, con cardini massicci, e il chiavistello era ben saldo.
Gli uomini mormorarono tra loro. Pensavano di fare il giro della casa, e di provare alla porta d’ingresso. In un attimo, Tenar si trovò all’ingresso, a tirare il catenaccio, senza sapere come ci fosse giunta. Forse era un incubo. Aveva già fatto varie volte quel sogno: che cercavano di entrare nella casa, che infilavano il coltello nella fessura della porta. Le porte… C’era qualche altra porta da cui potessero entrare? Le finestre? Le imposte della stanza da letto… Aveva il respiro talmente corto che temette di non poter arrivare alla stanza di Therru, ma poi si trovò là, e spinse contro i vetri le pesanti imposte. Le cerniere erano rigide, e, quando le due imposte si scontrarono, fecero rumore. Adesso, i banditi sapevano, e sarebbero arrivati. Avrebbero cercato di entrare dalla finestra della camera da letto, la stanza di Tenar, prima che lei riuscisse a chiudere le imposte. E infatti li vide davanti alla finestra.
Vide le loro facce — macchie che si muovevano nell’oscurità — mentre cercava di sganciare l’imposta di sinistra dalla molla che la teneva ferma. Ma era bloccata. Non riuscì a muoverla. Una mano si accostò al vetro, bianca sulla sua superficie.
«È qui.»
«Fateci entrare. Non vi faremo del male.»
«Vogliamo solo parlarvi.»
«Vuole solo vedere come sta la sua bambina.»
Finalmente, Tenar riuscì a sganciare l’imposta e la spinse contro la finestra. Ma se avessero rotto il vetro sarebbero riusciti ad aprire quelle imposte. La chiusura era un semplice gancio, che sarebbe uscito dal legno alla minima pressione.
«Fateci entrare e non vi faremo del male», insisté uno di loro.
Tenar sentì il rumore dei loro passi sul terreno gelato, le foglie cadute che scricchiolavano. Therru era sveglia? Il rumore delle imposte poteva averla svegliata, ma dalla bambina non era giunto alcun rumore. Tenar si fermò sul passaggio tra la sua stanza e quella di Therru. Era buia, silenziosa. Tenar non voleva svegliare la bambina. Doveva rimanere nella stanza con lei. Doveva lottare per lei. Prima aveva in mano l’attizzatoio: dove l’aveva messo? L’aveva posato a terra per chiudere le imposte. Non riuscì a trovarlo. Lo cercò a tentoni nel buio della stanza che pareva non avere muri.
La porta d’ingresso, che dava sulla cucina, tremò sotto le spinte dall’esterno.
Se avesse trovato l’attizzatoio, li avrebbe affrontati, avrebbe lottato contro di loro.
«Di qua!» gridò uno di loro, e Tenar capì che cosa aveva trovato. L’uomo guardava la finestra della cucina: era grande, priva di imposte, facile da raggiungere.
A tastoni, lentamente, Tenar raggiunse la camera da letto. Era la camera di Therru, adesso, e un tempo era stata quella dei suoi figli. Ma non era mai stato messo il chiavistello dalla parte interna, nel timore che i bambini si chiudessero dentro, e poi, spaventati, non riuscissero più ad aprire.
Dietro la collinetta, in fondo al frutteto, Rivochiaro e Prunella dormivano nella loro casa. Se Tenar avesse gridato, forse Prunella l’avrebbe sentita. Se avesse aperto la finestra della camera da letto e avesse gridato… o se avesse svegliato Therru e fossero uscite dalla finestra, e poi fossero scappate di corsa lungo il frutteto… Ma gli uomini erano lì ad aspettarle.
L’angoscia era insopportabile. Il terrore che l’aveva raggelata fino a quel momento s’incrinò e si ruppe, e Tenar, in preda al furore, corse in cucina — che per lei era un’unica macchia di luce rossa -, afferrò il coltello della carne, lungo e affilato, aprì con uno strattone il chiavistello e si fermò sulla soglia. «Fatevi avanti, allora!» esclamò.
Mentre così diceva, si levò un grido, seguito da un suono strangolato, e un uomo gridò: «Attenzione!» Un altro disse: «Qui, da questa parte!»
Poi il silenzio.
La luce dall’interno della cucina illuminò il ghiaccio scuro delle pozzanghere, scintillò sui rami neri delle querce e sulle foglie cadute, argentee. Quando gli occhi le si abituarono all’oscurità, Tenar vide una forma che strisciava verso di lei, sul passaggio davanti alla porta: una massa scura che strisciava e gemeva. Oltre la zona illuminata, una figura indistinta stava arrivando di corsa; quando si fermò, Tenar vide luccicare delle lunghe canne.
«Tenar!»
«Fermo dove sei!» esclamò lei, puntando il coltello.
«Tenar! Sono io… Falco, Sparviero!»
La forma scura in piedi si fermò accanto alla massa nera che giaceva sul passaggio. Alla luce della cucina, Tenar vide un corpo, una faccia, un lungo forcone tenuto alto… come il bastone di un mago, pensò. «Sei tu?» chiese.
Ged si chinò sulla massa nera stesa al suolo.
«L’ho ucciso, credo», disse. Guardò dietro di sé, si alzò. Degli altri banditi non c’era traccia.
«Dove sono?»
«Sono scappati. Dammi una mano, Tenar.»
Senza lasciare il coltello, Tenar, con la mano libera, prese il braccio dell’uomo raggomitolato sul passaggio. Ged lo afferrò per l’altra spalla; insieme lo trascinarono nella cucina. Quando lo girarono, il sangue gli uscì dal petto come da una bottiglia rotta. Aveva la bocca contorta in una smorfia, e si vedeva solo il bianco degli occhi.
«Chiudi la porta», disse Ged, e Tenar andò a tirare il chiavistello.
«I lenzuoli sono nell’armadio», lo informò Tenar, e Ged andò a prenderne uno e lo tagliò per farne delle bende, con cui fasciò il petto e l’addome dell’uomo, dove tre punte su quattro del forcone erano penetrate a tutta forza, procurandogli tre fori da cui, quando lo mossero per bendarlo, uscirono tre rivoli di sangue. Ged lo tenne sollevato, mentre Tenar legava le bende.
«Perché sei qui? Sei venuto con loro?»
«Sì, ma senza che lo sapessero. Non possiamo fare altro, Tenar.» Lasciò che il corpo dell’uomo si afflosciasse a terra e andò a sedersi, asciugandosi la faccia con il dorso della mano sporca di sangue. «Credo di averlo ucciso», ripeté.
«Forse sì.» Tenar guardò le macchie rosse che si allargavano sulla tela con cui avevano fasciato il torace peloso e scarno dell’uomo. Si alzò in piedi e si sentì girare la testa. «Vieni accanto al fuoco», disse a Ged. «Devi essere intirizzito.»
Tenar si chiese come avesse fatto a riconoscerlo al buio. La voce, forse. Indossava un grosso giaccone da pastore, di pelle di montone rovesciata, e un berrettone di lana calato fino alle orecchie; aveva la faccia coperta di rughe e rossa per le intemperie, i capelli lunghi e grigi. Puzzava di fumo di legna, di gelo, di pecore. In quel momento era scosso da brividi. «Vieni accanto al fuoco», ripeté Tenar. «Mettici un po’ di legna.»
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