Ursula Le Guin - L’isola del drago

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L’Arcipelago di Earthsea è una terra lontana dove la magia è ancora potente e capace di sottili e misteriosi incantesimi che legano (o separano) gli esseri umani e dove, talvolta, giungono i draghi per ricordare a tutti che, nella notte dei tempi, non c’era distinzione tra uomo e drago. E a Gont, una delle isole di Earthsea, vive Tenar, una donna che pur essendo stata l’allieva prediletta del potente Arcimago Ogion, ha sorprendentemente rinunciato ai Poteri della magia per condurre una vita tranquilla accanto all’uomo che ama. Ma quel destino che Tenar ha rifiutato non ha mai cessato di albergare nei ricordi, nei pensieri e nei gesti della donna, e ora ritorna a lei sotto forme diverse e inquietanti: una bambina martoriata nel corpo e nello spirito (ma dotata di immani capacità soprannaturali), un vecchio amico che ha smarrito i Poteri dopo un viaggio nella terra delle Tenebre, l’antico maestro che la chiama per confidarle un segreto che solo lei può comprendere. Tornare sul sentiero che pensava abbandonato per sempre non sarà facile per Tenar, eppure solo lei conosce quel luogo dove — fra streghe, draghi, premonizioni e sortilegi — si deciderà l’esito della lotta tra il giovane e coraggioso re di Gont e le forze delle Tenebre che hanno scagliato contro l’isola una maledizione letale…

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Fece come lei diceva. Tenar riempi il bricco e lo mise a scaldare.

Ged aveva la camicia sporca di sangue, e Tenar prese un pezzo di tela e lo bagnò nell’acqua fredda per pulirgli le macchie. Poi glielo diede perché si pulisse le mani. «Che cosa intendevi dire», chiese, «affermando di averli accompagnati senza che lo sapessero?»

«Stavo scendendo dalla montagna. Lungo la strada che porta alle sorgenti del Kaheda.» Parlava con voce incerta, come se fosse senza fiato, e di tanto in tanto, quando rabbrividiva, incespicava sulle parole. «Ho sentito arrivare degli uomini e ho lasciato la strada, mi sono nascosto tra gli alberi. Non avevo voglia di parlare. Non so perché. Nel loro comportamento c’era qualcosa che non mi andava. Mi sembrava gente poco affidabile.»

Tenar annuì con impazienza e si sedette di fronte a lui, dall’altra parte del focolare, e sporgendosi per sentire meglio. Aveva serrato i pugni; si accorse di essersi bagnata il vestito con l’acqua; sentiva freddo alle gambe.

«Mentre passavano, uno di loro ha detto: ‘Fattoria delle Querce’. Da allora in poi, li ho seguiti. Uno di loro continuava a parlare. Della bambina.»

«E che cosa diceva?»

Ged non rispose subito. Dopo qualche istante, proseguì: «Voleva riprendersela. Perché doveva punirla, diceva. E vendicarsi su di te. Perché l’avevi rubata. E diceva…» S’interruppe.

«Che voleva punire anche me.»

«Questo continuavano a ripeterlo anche gli altri.»

«Non è Faina», disse Tenar, indicando il ferito. «E il…»

«Diceva che la bambina era sua.» Anche Ged diede un’occhiata all’uomo, poi tornò a guardare il fuoco. «Sta morendo. Dovremmo andare a chiamare qualcuno.»

«Non morirà», disse Tenar. «Domattina farò venire Edera. Gli altri sono ancora là fuori. Quanti sono?»

«Due.»

«Se deve morire, morirà, e se deve vivere, vivrà. Ma nessuno di noi deve uscire.» Poi si alzò in piedi di scatto, impaurita. «Hai con te il forcone, Ged?»

Lui indicò le quattro lunghe punte che luccicavano, appoggiate vicino alla porta.

Tenar si sedette nuovamente accanto al fuoco. Adesso, anche lei tremava come una foglia, aveva i brividi come Ged quando era entrato. Lui le toccò il braccio. «Adesso è tutto a posto», disse.

«E se fossero ancora fuori?»

«Sono corsi via.»

«Potrebbero ritornare.»

«Due contro due? E noi abbiamo il forcone.»

Tenar abbassò la voce per dirgli, in un bisbiglio, terrorizzata: «La roncola e la falce sono nella capanna».

Ged scosse la testa. «Sono scappati via. Hanno visto… che lo colpivo… e hanno visto te alla porta.»

«Come hai fatto?»

«È corso verso di me. Così anch’io sono corso verso di lui.»

«Prima, intendo dire. Sulla strada.»

«Dopo un po’ hanno cominciato ad avere freddo. Si è messo a piovere, e avevano freddo, e hanno iniziato a parlare di venire qui. Prima, c’era soltanto uno di loro, questo, che parlava della bambina e di te, e di darvi… una lezione.» Non riuscì a proseguire. «Ho la gola secca», disse.

«Anch’io. Ma l’acqua non bolle ancora. Continua.»

Ged riprese fiato e cercò di raccontare in modo coerente la sua storia. «Gli altri due non gli avevano dato molto ascolto, fino a quel momento. Probabilmente gliel’avevano già sentito dire molte volte. E avevano fretta di arrivare a Valmouth: sembravano in fuga; era come se si fossero dovuti allontanare di corsa. Ma poi aveva cominciato a fare freddo, e lui parlava sempre della Fattoria delle Querce, e allora uno degli altri, quello con il berretto di cuoio, ha detto: ‘Be’, perché non andare laggiù a passare la notte con…’»

«Con la vedova, certo.»

Ged abbassò la faccia. Tenar aspettò che riprendesse.

Con gli occhi fissi sul fuoco, Ged continuò: «Poi li ho persi di vista. Nella valle, la strada procede in piano, e non potevo seguirli come avevo fatto sino a quel momento, in mezzo agli alberi, dietro di loro. Dovevo allontanarmi, tagliare per i campi senza farmi vedere. Non conosco la zona, qui; solo la strada, e avevo paura di perdermi, di non trovare la casa, se avessi imboccato delle scorciatoie. Poi si è fatto buio, e io temevo di avere già oltrepassato la fattoria, perciò sono ritornato sulla strada, e per poco non sono finito addosso a loro, che si erano fermati qui, al bivio. Avevano visto uscire il vecchio, e avevano deciso di aspettare che fosse buio, per evitare il pericolo che arrivasse qualcuno. Si sono nascosti nel fienile. Io ero fuori, addossato alla parete».

«Devi essere mezzo congelato», disse Tenar, cupa.

«Sì, faceva freddo.» Tese le mani in direzione del fuoco, come se il pensiero del freddo gliele avesse raggelate di nuovo. «Ho trovato il forcone accanto alla porta della capanna. Quando sono usciti dal loro nascondiglio, si sono diretti alla porta sul retro. Io sarei potuto venire all’ingresso per avvertirti, sarebbe stata la mossa più intelligente, ma riuscivo solo a pensare a coglierli di sorpresa: pensavo che fosse il mio unico vantaggio… che tutte le porte fossero sprangate e che dovessero entrare con la forza. Ma poi ho visto che sono entrati dalla porta sul retro, senza colpo ferire. Io sono entrato dopo di loro. Me la sono cavata per un pelo, quando hanno trovato la porta chiusa.» Fece una sorta di risatina. «Sono passati accanto a me, nel buio. Avrei potuto fargli lo sgambetto. Uno di loro aveva esca e acciarino, e accendeva un bastoncino di legno quando volevano controllare qualche chiusura. Sono arrivati alla porta d’ingresso. Ho sentito che chiudevi le imposte, e ho capito che li avevi scoperti. Parlavano di rompere la finestra dove ti avevano scorta. Poi quello dal berretto ha visto la finestra della cucina.» Indicò la finestra con il lungo e ampio davanzale. «Ha detto: ‘Trovatemi una pietra, rompo il vetro’. Gli altri lo hanno raggiunto e lo stavano aiutando a salire, quando sono intervenuto io. Ho lanciato un grido, e loro hanno lasciato cadere il compagno; poi, uno di loro… questo… si è gettato contro di me.»

«Ah, ah…» mormorò il ferito, dal pavimento, come se volesse intervenire nel racconto di Ged. Questi si alzò e si curvò su di lui.

«Sta per morire», disse.

«No», rispose Tenar. Non riusciva a smettere di tremare, ma ormai era soltanto un tremito interiore. Il bricco bolliva. Tenar preparò il tè e posò le mani sull’esterno della teiera, per riscaldarsele, mentre il tè era in infusione. Ne versò due tazze, e poi una terza, cui aggiunse un po’ di acqua fredda. «È ancora troppo caldo», disse a Ged. «Aspetta un minuto, prima di berlo. Provo a fargliene bere un po’.»

Si sedette sul pavimento, accanto alla testa dell’uomo, gliela sollevò e poi gli accostò alle labbra la tazza di tè tiepido, quasi infilandogliela tra i denti. Il tè gli scivolò nella bocca e l’uomo inghiottì meccanicamente. «Non morirà», disse Tenar, «ma qui il pavimento è un pezzo di ghiaccio. Portiamolo accanto al fuoco.»

Ged fece per prendere il tappeto che copriva la panca tra il focolare e l’ingresso. «Non prendere quello», lo avvertì Tenar. «È un tessuto troppo bello.» Andò a cercare nell’armadio e ne trasse un mantello di feltro, vecchio e liso, e lo stese per terra. Poi lei e Ged vi sdraiarono il corpo inerte e lo ricoprirono con le falde del mantello. Sulle bende, le macchie rosse non si erano più allargate.

Tenar si alzò, per poi immobilizzarsi subito.

«Therru», disse.

Ged si guardò intorno, ma la bambina non c’era. Tenar corse in camera da letto.

La camera dei bambini era buia e silenziosa. Tenar cercò il letto e posò la mano sulla curva tiepida della coperta, sopra la spalla di Therru.

«Therru?»

Il respiro della bambina era perfettamente regolare. Non si era svegliata. Tenar sentì il calore del suo corpo, come una piccola stufa nella stanza gelida.

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