Ursula Le Guin - L’isola del drago

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L’isola del drago: краткое содержание, описание и аннотация

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L’Arcipelago di Earthsea è una terra lontana dove la magia è ancora potente e capace di sottili e misteriosi incantesimi che legano (o separano) gli esseri umani e dove, talvolta, giungono i draghi per ricordare a tutti che, nella notte dei tempi, non c’era distinzione tra uomo e drago. E a Gont, una delle isole di Earthsea, vive Tenar, una donna che pur essendo stata l’allieva prediletta del potente Arcimago Ogion, ha sorprendentemente rinunciato ai Poteri della magia per condurre una vita tranquilla accanto all’uomo che ama. Ma quel destino che Tenar ha rifiutato non ha mai cessato di albergare nei ricordi, nei pensieri e nei gesti della donna, e ora ritorna a lei sotto forme diverse e inquietanti: una bambina martoriata nel corpo e nello spirito (ma dotata di immani capacità soprannaturali), un vecchio amico che ha smarrito i Poteri dopo un viaggio nella terra delle Tenebre, l’antico maestro che la chiama per confidarle un segreto che solo lei può comprendere. Tornare sul sentiero che pensava abbandonato per sempre non sarà facile per Tenar, eppure solo lei conosce quel luogo dove — fra streghe, draghi, premonizioni e sortilegi — si deciderà l’esito della lotta tra il giovane e coraggioso re di Gont e le forze delle Tenebre che hanno scagliato contro l’isola una maledizione letale…

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Therru si girò dall’altra parte.

«No, sei davvero bellissima», le disse allora Tenar, in tono diverso. «Ascoltami, Therru, vieni qui. Hai delle cicatrici, brutte cicatrici, perché ti hanno fatto una cosa brutta, malvagia. La gente vede le cicatrici. Ma vede anche te, e tu non sei le tue cicatrici. Tu non sei brutta. Tu non sei malvagia. Tu sei Therru, e sei bellissima. Tu sei Therru, che è in grado di lavorare, di camminare, di danzare meravigliosamente, con il tuo bell’abito rosso.»

La bambina la ascoltò senza mostrare alcuna espressione; il lato liscio, intatto, del suo viso era immobile come quello nascosto dalla cicatrice.

Poi guardò le mani di Tenar e infine, sfiorandogliele con le piccole dita: «È un bellissimo vestito», disse con la sua voce debole e rauca.

Quando Tenar rimase sola, a raccogliere i ritagli di stoffa rossa, senti il bisogno di piangere. Aveva fatto bene a cucirle il vestito, e aveva detto alla bambina la verità. Ma il giusto e il vero non erano sufficienti. Attorno a essi c’era un vuoto, un abisso. L’amore — il suo amore per Therru e quello della bambina per lei — gettava un ponte su quell’abisso, un ponte fragile come una ragnatela, ma l’amore non poteva né riempire né cancellare quell’abisso. Non c’era niente che potesse farlo. E la bambina lo sapeva quanto lei.

Giunse il giorno dell’equinozio, con un bel sole autunnale che splendeva tra la nebbia. Nelle foglie delle querce si affacciarono i primi toni ramati. Mentre puliva i secchi del latte, con la finestra e la porta spalancate che lasciavano entrare l’aria frizzante, Tenar pensò che quel giorno, a Havnor, veniva incoronato il suo giovane re. I signori e le dame si sarebbero presentati con abiti azzurri, verdi e rossi, ma lui si sarebbe vestito di bianco, pensò Tenar. Sarebbe salito alla Torre della Spada, montando sugli stessi scalini su cui erano montati lei e Ged. La corona di Morred gli sarebbe stata posata sulla testa. Lui si sarebbe voltato, al suono delle trombe, e si sarebbe seduto sul trono che era rimasto vuoto per tanti anni, e avrebbe guardato il suo regno con quei suoi occhi scuri, che conoscevano il dolore e la paura. «Governa bene, governa a lungo», gli augurò mentalmente. «Povero ragazzo!» E pensò anche: «Doveva davvero essere Ged a incoronarlo. Avrebbe fatto bene ad andare».

Ma Ged pascolava le pecore del ricco fattore (o erano capre?) nei pascoli in cima al monte. Quell’anno, l’autunno era caldo, asciutto, dorato, e per riportare le pecore in pianura avrebbero aspettato che lassù, sui monti, cadesse la prima neve.

Quando si recava al villaggio, Tenar non mancava mai di andare a trovare Edera nella sua casupola sulla strada del mulino. L’amicizia sorta a Re Albi tra lei e Muschio l’aveva spinta a conoscere meglio la strega, ammesso che riuscisse a vincere i suoi sospetti e la sua gelosia. Sentiva la mancanza di Muschio, ancor più di quanto non avesse sentito la mancanza di Lodola quando era a casa di Ogion; aveva imparato molte cose da lei, e aveva finito per volerle bene; inoltre Muschio aveva dato a lei e a Therru qualcosa di cui avevano bisogno. Ma Edera, anche se era più pulita e più attendibile di Muschio, non aveva intenzione di rinunciare alla sua antipatia per Tenar. Accolse i suoi tentativi di fare amicizia con il disprezzo che — lo ammise la stessa Tenar — probabilmente si meritavano. «Tu, va’ per la tua strada; io vado per la mia», le diceva la strega, in tutti i modi tranne che a parole; e Tenar obbediva, anche se ora, quando andava a trovarla, trattava Edera con grande rispetto. Per molti anni l’aveva trattata male e l’aveva disprezzata, pensò, e doveva farne ammenda. E la strega, che evidentemente concordava con lei, accettava i suoi tributi senza piegarsi e senza ammorbidirsi.

Verso la metà dell’autunno, il mago Faggio passò per la valle, chiamato da un ricco contadino perché gli curasse la gotta. Si soffermò più del solito nei villaggi della Valle di Mezzo, e passò un pomeriggio alla Fattoria delle Querce, per visitare Therru e per parlare con Tenar. Volle sapere tutto il possibile sulla morte di Ogion: era stato allievo di uno degli allievi di Ogion, e aveva molta ammirazione per il mago di Gont. Tenar scoprì che parlare di Ogion le era meno difficile che parlare delle altre persone di Re Albi, e gli disse tutto quel che poté. Quando lei ebbe finito, il mago le chiese con cautela: «E l’Arcimago… è poi venuto?»

«Si», disse Tenar.

Faggio, un uomo sui quarant’anni, dalla pelle lucida e dall’aria tranquilla, che tendeva alla pinguedine, con borse scure sotto gli occhi che contrastavano con la sua aria innocente, guardò Tenar e non chiese niente.

«È arrivato dopo la morte di Ogion, e poi se n’è andato», rispose lei. Quindi aggiunse: «Non è più l’Arcimago, adesso. Lo sapevate?»

Faggio annuì.

«Hanno scelto il nuovo Arcimago?» chiese Tenar.

Faggio scosse la testa. «È arrivata una nave dalle Enlades poco tempo fa, ma l’equipaggio parlava solo dell’incoronazione. Tutti ne erano entusiasti. Sembra che tutti gli auspici siano stati fausti. Se gli auguri dei maghi valessero qualcosa, allora questo nostro nuovo re sarebbe ricchissimo… Ed è anche una persona attiva, a quanto si sente dire. Da Porto Gont è arrivato un ordine, poco prima che lasciassi Valmouth: i nobili e i mercanti, oltre al sindaco e al consiglio comunale, devono riunirsi per nominare le guardie di polizia del distretto e per controllare che siano persone oneste e capaci, perché ora sono funzionari del re e devono obbedire ai suoi ordini e applicare le sue leggi. Be’, potete immaginare anche voi come Lord Heno abbia accolto la notizia!» Heno era un noto protettore dei pirati, e da tempo aveva al suo soldo le guardie di polizia, terrestre e marittima, della costa meridionale di Gont. «Ma c’è chi è disposto a opporsi a Heno, adesso che si può contare sull’appoggio del re. Da un giorno all’altro hanno cacciato via i vecchi funzionari e ne hanno messi dei nuovi, gente onesta e stipendiata dal sindaco. Heno se n’è andato via infuriato, minacciando vendetta. È davvero un nuovo giorno. Non spunterà subito, certo, ma sta arrivando. Peccato che il Maestro Ogion non sia vissuto abbastanza per vederlo.»

«L’ha visto», rispose Tenar. «Quando stava per morire, ha sorriso e ha detto: ‘Tutto è cambiato…’»

Faggio accolse la notizia con la solita flemma, annuendo lentamente. «Tutto è cambiato», ripeté.

Dopo un poco, aggiunse, cambiando discorso: «La piccola va molto bene».

«Sì, abbastanza. Ma a volte ho l’impressione che non faccia molti progressi.»

«Signora Goha», disse il mago, «se io stesso, o qualsiasi altro mago, strega o addirittura sapiente di Roke, mi fossi preso cura di lei, servendomi di tutti i poteri taumaturgici dell’arte magica, per tutti i mesi trascorsi da quando è successo l’incidente, non potrebbe stare meglio di ora. Avete fatto tutto quel che si poteva fare. Avete fatto meraviglie.»

Tenar era commossa da quelle lodi sincere, ma la rattristarono; e ne spiegò la ragione al mago. «Non posso guarirla. Ed è… che cosa può fare? Che ne sarà di lei?» Posò la conocchia con cui stava filando e disse: «Ho paura».

«Per lei», disse Faggio, in tono per metà di domanda e per metà di constatazione.

«Ho paura perché i suoi timori attirano — richiamano — la causa dei suoi timori. Ho paura perché…»

Non riuscì a trovare le parole.

«Se vivrà nel timore, finirà per fare del male», terminò. «La cosa mi allarma.»

Il mago rifletté. «Pensavo», disse infine, nel suo solito modo diffidente, «che forse, se ha il dono, come credo abbia, potrebbe imparare qualcosa dell’arte magica. E, come strega, il suo… aspetto non avrebbe importanza… penso.» Si schiarì la gola. «Ci sono streghe che fanno un lavoro tutt’altro che disprezzabile», terminò.

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