Mi azzardai a chiedere da quanto tempo durasse la cosa.
— Da molti anni… da quando io ero giovane, come ti ho detto. Qualche volta, la gente della riva combatteva, ma più spesso non lo faceva. Due volte giunsero guerrieri dal sud, inviati dal popolo orgoglioso che vive nelle alte case sulle rive meridionali. Mentre essi erano qui, i combattimenti cessarono, ma non ho idea di cosa si disse all’interno del castello. Il costruttore, di cui ti ho parlato, non venne mai più visto da nessuno, una volta che il castello fu completato.
Llibio attese che io dicessi qualcosa. Io avevo la sensazione, come mi capitava spesso nel parlare con gente più anziana di me, che le parole che avevo udito e quelle che lui aveva pronunciato fossero differenti, che nel suo discorso vi fosse un carico di sottintesi, di allusioni e di implicazioni altrettanto invisibile per me quanto lo era il suo respiro, come se il Tempo fosse stato una sorta di candido spirito che si ergeva in mezzo a noi e cancellava con le sue lunghe maniche la maggior parte di quanto veniva detto prima che io avessi potuto udirlo.
— Forse è morto — azzardai infine.
— Un malvagio gigante abita ora là, ma nessuno lo ha mai visto.
— Eppure — replicai, reprimendo a stento un sorriso, — direi che la sua presenza dovrebbe costituire un forte deterrente nell’impedire alla gente della riva di attaccare il castello.
— Cinque anni fa, essi lo attaccarono di notte come gli insetti che invadono un cadavere: bruciarono il castello e uccisero tutti coloro che vi trovarono dentro.
— Allora continuano a farvi guerra per abitudine?
— Dopo lo scioglimento delle nevi, quest’anno — replicò Llibio, scuotendo il capo, — la gente del castello è tornata. Aveva le mani piene di doni… ricchezze e le strane armi che tu hai rivolto contro il popolo della riva. Ci sono anche altri che vanno là, ma noi del lago non sappiamo se vanno in veste di padroni o di servitori.
— Vengono dal nord o dal sud?
— Vengono dal cielo — replicò Llibio, indicando là dove brillavano debolmente le stelle, sbiadite dalla maestà del sole, ma io pensai soltanto che intendesse dire che i visitatori erano giunti a bordo di velivoli e non chiesi altro.
Durante tutto il giorno, la gente del lago continuò ad affluire. Molti erano a bordo di barche come quella che aveva seguito il capo villaggio; ma altri scelsero di far navigare le loro isole fino a portarle vicino a quella di Llibio, cosicché ci trovammo come in mezzo ad un continente galleggiante. Non mi fu mai chiesto direttamente di guidarli contro la gente del castello, eppure, man mano che il giorno passava, cominciai a rendermi conto che questo era il loro desiderio ed essi cominciarono a capire che li avrei guidati. Nei libri, credo, queste cose avvengono convenzionalmente, per mezzo di fieri discorsi, ma la realtà delle cose talvolta è differente. Essi ammiravano la mia alta statura e la mia spada, e Pia aveva detto loro che ero un rappresentante dell’Autarca e che ero stato inviato a liberarli.
— Anche se siamo noi quelli che soffrono maggiormente — mi disse Llibio, — il popolo della riva è riuscito ad impossessarsi del castello. Sono più forti di noi in guerra, ma non tutto quello che hanno bruciato è stato ricostruito, ed essi non avevano un capo venuto dal sud.
Interrogai sia lui che gli altri in merito alle terre circostanti il castello, e spiegai che non avremmo attaccato fino a che la notte avesse reso difficile per le sentinelle scorgere il nostro avvicinarsi. Anche se non lo dissi, volevo attendere l’oscurità perché questo rendeva impossibile sparare con precisione; se il padrone del castello aveva dato al capo villaggio i proiettili del potere, mi sembrava probabile che avesse conservato per sé armi molto più efficaci.
Quando salpammo, ero alla testa di circa un centinaio di guerrieri, anche se la maggior parte di loro era armata di lance con la punta d’osso di foca, oppure di pachos o coltelli. Farebbe bene alla stima di me stesso se adesso scrivessi che avevo acconsentito a guidare quel piccolo esercito perché mosso da un senso di responsabilità e di preoccupazione per la loro situazione, ma non sarebbe vero. Né lo feci perché temessi quello che avrebbero potuto farmi se avessi rifiutato, anche se sospetto che, a meno di ricorrere ad un’elevata dose di diplomazia, fingendo di ritardare o di scorgere un qualche beneficio per gli isolani nel non combattere, mi sarei potuto trovare in una situazione davvero brutta.
La verità è che ero sottoposto ad una forza coercitiva maggiore di qualsiasi pressione da parte loro. Llibio portava intorno al collo un pesce intagliato in un dente, e, quando gli avevo chiesto cosa fosse, aveva risposto che era Oannes, e lo aveva coperto con la mano in modo che i miei occhi non lo potessero profanare, poiché lui sapeva bene che io non credevo in Oannes, che doveva certo essere il pesce-divinità di quel popolo.
In effetti, io non credevo in lui, eppure sentivo di sapere su Oannes tutto ciò che importava sapere. Sapevo che viveva nelle oscure profondità del lago, ma che lo si poteva veder balzare sulle onde durante le tempeste. Sapevo che era il pastore del profondo, che riempiva le reti degli isolani di pesce, e che gli assassini non potevano solcare le acque senza timore, perché Oannes sarebbe apparso accanto alla loro barca con occhi grandi come lune, e l’avrebbe fatta rovesciare.
Io non credevo in Oannes e non lo temevo, ma pensavo di sapere da dove venisse… sapevo che nell’universo esiste un potere che pervade tutto e che rispetto ad esso ogni altro potere è ombra. Sapevo che, in ultima analisi, la mia concezione di quel potere era altrettanto ridicola (ed altrettanto seria) quanto quella di Oannes. Sapevo che l’Artiglio gli apparteneva, e sentivo che era solo dell’Artiglio che sapevo queste cose, solo dell’Artiglio fra tutti gli altari ed i paramenti del mondo. Lo avevo tenuto in mano innumerevoli volte, lo avevo sollevato sulla mia testa nel Vincula, avevo toccato con esso l’ulano dell’Autarca e la ragazza malata nello jacal di Thrax. Avevo tenuto in mano l’infinito ed avevo maneggiato il suo potere; non ero più certo che sarei riuscito a consegnarlo remissivamente alle Pellegrine, se mai le avessi rintracciate, ma sapevo con certezza che non lo avrei ceduto remissivamente a nessun altro.
Per di più, mi sembrava in un certo modo di essere stato prescelto per detenere, sia pure per breve tempo, quel potere. Le Pellegrine lo avevano perduto a causa della mia irresponsabilità nel permettere ad Agia di incitare il nostro cocchiere a gareggiare, e quindi era divenuto mio dovere averne cura, usarlo e forse restituirlo. Ed era certo mio dovere recuperarlo dalle mani, mani mostruose a quanto pareva, in cui era adesso caduto a causa della mia incuria.
Prima di cominciare questo resoconto della mia vita, non avevo intenzione di rivelare alcuno dei segreti della nostra corporazione che mi furono svelati dal Maestro Palaemon e dal Maestro Gurloes appena prima che venissi elevato, il giorno della festa di Santa Katharine, al rango di artigiano. Ma ne rivelerò uno ora, poiché ciò che feci quella notte sul Lago Diuturna non può essere compreso se non si conosce questo segreto. E tale segreto è solo che noi torturatori obbediamo. In tutto l’elevato ordine del corpo politico, quella piramide di vite che è immensamente più alta di qualsiasi torre materiale, più alta del Forte della Campana, più alta del Muro di Nessus, più alta del Monte Typhon, quella piramide che si estende dall’Autarca sul suo Trono della Fenice al più umile impiegato che sgobba per il più disonorato commerciante… una creatura più infima del più infimo mendicante… noi siamo l’unica pietra solida. Nessuno obbedisce realmente se non è pronto a fare l’inimmaginabile per obbedire; nessuno è disposto a fare l’inimmaginabile tranne noi.
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