Logicamente, smaniavo dal desiderio di chiedere a Hildegrin notizie su Vodalus, ma non mi si presentò l'occasione giusta fino a quando ci ebbe riportato dall'altro lato del lago silenzioso. Poi, Agia fu talmente occupata a cercare di allontanare Dorcas che io riuscii ad appartarmi con lui e a sussurrargli che ero anch'io un amico di Vodalus.
— Ti stai sbagliando, giovane sieur… stai parlando di Vodalus il fuorilegge?
— Io non dimentico mai alcuna voce — dissi. — Né altro. — Poi, nella mia brama di smascherarlo, aggiunsi forse la frase peggiore che avrei potuto dire: — Tu cercasti di fracassarmi il cranio con il badile. — La sua faccia divenne una maschera: risalì sulla barca e si allontanò remando velocemente sull'acqua scura.
Quando Agia e io uscimmo dai Giardini Botanici, Dorcas ci seguiva ancora. Agia era ansiosa di congedarla, e per un po' la lasciai provare. Temevo che se Dorcas fosse rimasta con noi non sarei riuscito a far giacere Agia insieme a me; ma capivo anche che Dorcas, già confusa e atterrita, avrebbe sofferto nel vedermi morire. Solo poco prima avevo confessato ad Agia tutta la mia angoscia per la morte di Thecla; in quel momento, una nuova serie di preoccupazioni l'avevano messa a tacere e mi resi conto che avevo versato quell'angoscia come un uomo può riversare a terra un vino acido. Avevo usato il linguaggio della sofferenza per cancellare la sofferenza, per il momento… la magia delle parole è talmente forte che riesce a rendere affrontabili passioni che diversamente ci annienterebbero.
Quali che fossero le motivazioni mie, di Agia e di Dorcas, Agia fallì nel suo intento e io arrivai a minacciare di picchiarla se non avesse lasciato in pace la povera Dorcas, che ci seguiva a una cinquantina di passi di distanza.
Procedemmo tutti e tre in silenzio, suscitando molte strane occhiate. Io ero inzuppato d'acqua, e non mi curavo più che il mantello coprisse la mia cappa da torturatore. Agia, nella sua veste di broccato strappata, doveva risultare ancora più inconsueta di me. Dorcas era ricoperta di fango, che le si asciugava addosso nel tiepido vento primaverile e le incrostava i capelli dorati, lasciando chiazze di un marrone polveroso sulla sua pelle chiara. Sopra le nostre teste, l'avern ondeggiava come un vessillo ed esalava profumo di mirra. Il fiore semiaperto splendeva ancora bianco come un osso, ma le foglie nella luce del sole apparivano quasi nere.
XXV
LA LOCANDA DEGLI AMORI PERDUTI
Ho sempre avuto la fortuna — o forse la sfortuna — che i posti ai quali è stata legata la mia vita hanno avuto tutti, tranne rarissime eccezioni, carattere permanente. Se lo desiderassi, domani potrei fare ritorno alla Cittadella e, penso, dormire sulla stessa branda in cui dormivo da apprendista. Il Gyoll scorre ancora attraverso Nessus, la mia città, e i Giardini Botanici scintillano tuttora al sole, sfaccettati in quegli strani recinti che conservano in eterno la loro atmosfera. Le uniche cose transitorie della mia vita che mi vengano in mente sono le persone. Tuttavia ci sono anche alcuni edifici, e fra di loro spicca la locanda ai margini del Campo Sanguinario.
Avevamo camminato per quasi tutto il pomeriggio lungo ampi viali e angusti vicoletti, e sempre le case che ci circondavano erano fatte di pietra e di mattoni. Finalmente arrivammo a un giardino che non era esattamente un giardino, perché nel suo centro non sorgeva nessuna villa sontuosa. Rammento che avvisai Agia del temporale imminente… l'aria era soffocante e all'orizzonte si scorgeva una nera linea minacciosa.
Lei rise. — Quello che vedi e senti non sono altro che le Mura della Città. Qui è sempre così. Le Mura ostacolano il movimento dell'aria.
— Quella linea scura che arriva a metà del cielo?
Agia rise di nuovo, ma Dorcas si strinse a me. — Ho paura, Severian.
Agia la sentì. — Delle Mura? Non ti possono fare del male a meno che ti crollino addosso, ma sono in piedi da dozzine di ere. — Io la fissai con sguardo interrogativo e lei soggiunse: — Per lo meno, sembrano tanto vecchie, o forse lo sono ancora di più. Chi lo sa?
— Pare che escludano il resto del mondo. Circondano tutta la città?
— Per definizione. La città è quello che viene racchiuso, nonostante a nord ci siano le campagne, ho sentito dire, e a sud leghe e leghe di rovine nelle quali non vive nessuno. Ma ora, guarda fra quei pioppi. Vedi la locanda? Non ci riuscivo.
— Sotto la pianta. Mi hai promesso un pasto ed è lì che lo voglio. Credo che abbiamo il tempo di mangiare prima del duello con il Septentrion.
— No — dissi. — Sarò felice di offrirti la cena dopo il combattimento. Darò subito disposizioni, se preferisci. — Continuavo a non vedere la taverna, ma avevo notato qualcosa di strano nella pianta: una scala di legno rustico si snodava intorno al tronco.
— E va bene. Se morirai, inviterò il Septentrion… e se lui non verrà, chiamerò quel marinaio squattrinato che mi desidera. Berremo alla tua memoria.
Tra i rami dell'albero brillava una luce e vidi un sentiero che conduceva alla scala. Sopra c'era un'insegna dipinta, una donna in lacrime che trascinava una spada insanguinata. Un uomo terribilmente grasso, con un grembiule legato intorno alla vita, uscì dall'ombra e si fermò, sfregandosi le mani, ad aspettarci. Udii l'acciottolio delle pentole.
— Abban, ai vostri ordini — disse il grassone, quando lo raggiungemmo. — Che cosa desiderate? — Notai che teneva sotto controllo il mio avern con nervosismo.
— Una cena per due da servire a… — Guardai Agia.
— Al prossimo turno di guardia.
— Bene, bene. Ma ci vorrà più tempo per prepararla, sieur, a meno che non vi accontentiate di carni fredde, insalata e una bottiglia di vino.
Agia si spazientì. — Vogliamo un pollo arrosto… e tenero.
— Come volete. Dirò al cuoco di mettersi subito al lavoro, e nell'attesa, dopo la vittoria, sieur, potrete stuzzicarvi l'appetito con dello stufato. — Agia annuì e lanciò al locandiere un'occhiata d'intesa dalla quale dedussi che quei due si conoscevano già. — Intanto — continuò il grassone, — se vi resta tempo, potrei prepararvi una tinozza d'acqua calda e una spugna per l'altra giovane signora, e magari gradireste tutti e tre un bicchiere di Medoc e qualche biscotto.
Di colpo mi resi conto che non toccavo cibo dalla colazione fatta all'alba con Baldanders e il dottor Talos, e che forse Agia e Dorcas non avevano mangiato niente in tutta la giornata. Quando acconsentii, il locandiere ci fece strada su per l'ampia scala rustica che ruotava intorno al tronco immenso.
— Sei già venuto da noi, sieur?
Scossi il capo. — Stavo giusto per domandare che locanda è questa. Non ho mai visto niente di simile.
— E non ne troverai un'altra, sieur. Ma saresti dovuto venire prima… la nostra cucina è famosa e cenare all'aperto stimola l'appetito.
Pensai che dovesse aver ragione, se lui riusciva a mantenersi tanto in carne in un posto nel quale ogni camera era raggiungibile solo per mezzo della scala, ma non dissi niente.
— La legge, sieur, impedisce di costruire tanto vicino alle Mura. Noi abbiamo avuto il permesso perché non abbiamo né pareti né tetto. Tutti quelli che frequentano il Campo Sanguinario vengono qui, i duellanti e gli eroi famosi, gli spettatori e i medici, persino gli efori. Ecco la vostra camera.
Si trattava di una piattaforma circolare e perfettamente piatta. Il fogliame verdechiaro che la circondava escludeva ogni visuale e ogni suono. Agia si accomodò su una sedia di tela, mentre io, confesso che mi sentivo sfinito, mi lasciai andare vicino a Dorcas su un divano fatto di pelle e di corna intrecciate di lechwes e di montoni acquatici. Dopo aver riposto l'avern dietro il letto, sguainai Terminus est e iniziai a ripulire la lama. Una sguattera portò l'acqua e una spugna per Dorcas e quando mi vide tornò con stracci e olio per me. Iniziai a battere sul pomello, per estrarre la lama e pulirla meglio.
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