Gene Wolfe - La cittadella dell'Autarca

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La cittadella dell'Autarca: краткое содержание, описание и аннотация

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Nei romanzi precedenti del ciclo avevamo visto Severian viaggiare verso Thrax, la città del suo esilio, armato solo della mitica spada Terminus Est, ultimo dono del suo Maestro Torturatore. Nel corso del viaggio aveva incontrato numerosi personaggi strani e affascinanti, come la dolce e misteriosa Dorcas, i due gemelli Agia e Agilus, la bellissima Jolenta, il dottor Talos, ma soprattutto era entrato in possesso dell’Artiglio del Conciliatore, una gemma dai poteri miracolosi appartenuta a una figura leggendaria del passato. Arrivato a Thrax, Severian si era infine accorto che la Città delle Stanze senza Finestre non era la sua meta definitiva: strani portenti infatti gli indicano che un destino futuro molto elevato lo attende. E in questo quarto e definitivo volume della serie, finalmente Severian saprà cosa gli è stato predestinato dalla sorte. Il suo viaggio lungo e periglioso lo riporterà proprio a Nessus, la città da cui era stato bandito, con una missione che determinerà il fato dell’intera Urth e la nascita del Nuovo Sole e di una nuova era.

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Era la stanza dove il Maestro Malrubius giaceva ammalato. I Maestri hanno diritto a spaziosi alloggi, ma questo era di gran lunga più ampio di quanto lo fosse stata la cabina reale. C’erano due oblò, proprio come io ricordavo, ma erano enormi… come gli occhi del Monte Typhon. Il letto del Maestro Malrubius era molto grande, eppure sembrava perdersi nell’immensità della stanza. Due figure erano chine su di lui, e, sebbene i loro abiti fossero neri, rimasi colpito dal fatto che non avessero la tinta fuligginosa che contraddistingueva gli indumenti della corporazione. Mi accostai, e, quando fui tanto vicino da poter udire il respiro affannoso del malato, esse si raddrizzarono e si volsero a guardarmi: erano la Cumana e la sua accolita, Merryn, le streghe che avevamo incontrato in cima alla tomba nella città di pietra in rovina.

— Ah, sorella, sei venuta finalmente — disse Merryn.

Quando parlò, mi resi conto di non essere, come avevo creduto, l’apprendista Severian, bensì Thecla, come era quando aveva la stessa età, cioè fra i tredici ed i quattordici anni. Provai un profondo imbarazzo, non perché avessi un corpo femminile o perché indossassi abiti maschili (cosa che piuttosto mi faceva piacere), ma perché fino a quel momento non me ne ero reso conto. Sentii anche che le parole di Merryn avevano provocato una magia… che sia Severian che io eravamo stati presenti fino a quel momento e che lei aveva in qualche modo sospinto Severian sullo sfondo. La Cumana mi baciò sulla fronte, e, quando lo ebbe fatto, si pulì il sangue che le macchiava le labbra. Sebbene non parlasse, compresi che quello era una sorta di segnale indicante che io ero diventata in qualche modo anche il soldato.

— Quando dormiamo — mi disse Merryn, — ci spostiamo dalla temporalità all’eternità.

— Quando ci destiamo — sussurrò la Cumana, — perdiamo la capacità di vedere al di là del momento presente.

— Lei non si sveglia mai — si vantò Merryn.

Maestro Malrubius si agitò e gemette, e la Cumana, presa una caraffa d’acqua dal tavolino vicino al letto, ne versò un poco in un bicchiere. Quando tornò a posare la caraffa, qualcosa di vivo si agitò in essa, ed io, per chissà quale ragione, pensai all’ondina. Mi trassi indietro, ma si trattava di Hethor, non più alto della mia mano, la grigia faccia barbuta premuta contro il vetro.

Sentii la sua voce come si può udire lo squittio di un topo.

— Costretto talvolta ad atterrare dalle tempeste di fotoni, dal roteare delle galassie, in un senso o nell’altro, scattando come luce lungo gli oscuri corridoi marini tappezzati delle nostre vele argentee, veleggia il nostro specchio incalzato dai demoni, il nostro albero alto cento leghe sottile come un filo, sottile come aghi d’argento che cuciano con fili di luce stellare, ricamando le stelle su velluto nero, umido per i venti del Tempo che passa precipitoso. L’osso fra i suoi denti! La spuma, la spuma volante del Tempo, gettata su queste spiagge dove vecchi marinai non possono più tenere lontane le loro ossa dall’inquieto universo mai stanco. Dov’è andata? La mia signora, la compagna della mia anima? È andata attraverso le agitate maree dell’Acquario, dei Pesci, dell’Ariete. Andata. Andata nella sua piccola barca, il seno premuto contro la coperta di nero velluto; andata, veleggiando per sempre lontano dalle spiagge lambite dalle stelle, dagli aridi scogli dei mondi abitabili. Lei è la sua nave, lei è la figura scolpita a prua, il capitano. Nostromo, Nostromo, fa calare la lancia! Tessitore di vele, prepara una vela! Ci ha lasciati indietro. Noi l’abbiamo lasciata indietro. Lei è nel passato che noi non abbiamo mai conosciuto ed è nel futuro che noi non vedremo. Issa altre vele, Capitano, perché l’universo ci sta lasciando indietro…

C’era una campana posata sul tavolino accanto alla caraffa. Merryn la fece suonare come per soffocare la voce di Hethor, poi, quando Maestro Malrubius si fu inumidito le labbra con il liquido del bicchiere, lo tolse di mano alla Cumana e gettò per terra quanto vi rimaneva, posando poi il bicchiere rovesciato sul collo della caraffa. Così, Hethor venne zittito, ma l’acqua si sparse sul pavimento, gorgogliando come se fosse alimentata da una qualche sorgente nascosta. Era gelida, e pensai vagamente che la mia governante si sarebbe arrabbiata perché mi ero bagnata le scarpe.

Una cameriera arrivò al suono della campana… la cameriera di Thecla, la cui gamba scorticata avevo ispezionato il giorno dopo aver salvato Vodalus. Adesso era più giovane, come doveva essere stata quando Thecla era ancora una bambina, ma la sua gamba era già stata scorticata ed era coperta di sangue.

— Mi dispiace — dissi. — Mi dispiace così tanto, Hunna. Non sono stata io a farlo… è stato il Maestro Gurloes, con qualcuno degli artigiani.

Il Maestro Malrubius si sollevò a sedere sul letto, e, per la prima volta, notai che il letto era costituito in effetti dalle mani di una donna, con dita più lunghe del mio braccio ed unghie simili ad artigli.

— Stai bene! — disse, come se fossi stata io ad essere quasi in punto di morte. — O quasi bene, almeno.

Le dita della mano cominciarono a chiudersi su di lui, ma egli balzò giù dal letto nell’acqua che ora arrivava al ginocchio.

Un cane… il mio vecchio Triskele… si era tenuto nascosto sotto il letto, a quanto sembrava, o forse era semplicemente disteso dalla parte opposta, fuori vista. Adesso venne verso di noi sguazzando nell’acqua con l’unica zampa anteriore, mentre spingeva attraverso essa l’ampio petto abbaiando gioiosamente. Il Maestro Malrubius prese la mia mano destra e la Cumana mi afferrò la sinistra: insieme, mi condussero verso uno dei grandi occhi della montagna.

Scorsi lo stesso panorama che avevo visto quando Typhon mi aveva condotto là. Il mondo era disteso come un tappeto, e visibile nella sua interezza, ma questa volta lo spettacolo era decisamente più splendido. Il sole stava alle nostre spalle, ed i suoi raggi sembravano avere una forza molto maggiore. Le ombre avevano assunto una tinta dorata, ed ogni pianta sembrava diventare più scura e rinforzarsi mentre guardavo. Potevo vedere il grano maturare nei campi e perfino le miriadi di pesci nel mare andare avanti e indietro con l’infittirsi delle piccole piante di superficie che davano loro il sostentamento. L’acqua proveniente dalla stanza alle nostre spalle si riversò fuori dall’occhio, e, riflettendo la luce, precipitò descrivendo un arcobaleno.

Poi mi destai.

Mentre dormivo, qualcuno mi aveva avvolto in teli coperti di neve (più tardi, appresi che essa veniva trasportata giù dalle cime montane da conducenti di bestie da soma dal passo sicuro). Tremando, desiderai far ritorno al mio sogno, anche se ero già parzialmente conscio dell’immensa distanza che ormai mi separava da esso. Avevo in bocca l’amaro sapore di una medicina, mentre il telo disteso sotto di me mi sembrava duro come il pavimento, e Pellegrine vestite di scarlatto si muovevano avanti e indietro con le lampade in mano, occupandosi degli uomini e delle donne che gemevano nell’oscurità.

V

IL LAZZARETTO

Non credo di aver effettivamente dormito ancora, quella notte, anche se forse sonnecchiai un poco. Quando arrivò l’alba, la neve si era sciolta, e due Pellegrine tolsero i teli, lasciandomi un asciugamano perché mi asciugassi, portandomi quindi coperte asciutte. Volevo dare loro l’Artiglio in quell’occasione… i miei oggetti erano sotto il giaciglio… ma il momento mi parve poco opportuno, quindi mi sdraiai e, sebbene fosse ormai giorno, dormii.

Mi svegliai di nuovo verso mezzogiorno. Il lazzaretto era tranquillo come al solito; da qualche parte, in lontananza, due uomini stavano parlando, ed un altro gridò, ma quelle voci servivano soltanto ad enfatizzare il silenzio circostante. Mi sollevai a sedere e mi guardai intorno, nella speranza di vedere il soldato. Alla mia destra giaceva un uomo i cui capelli rasati m’indussero dapprima a pensare che si trattasse di uno degli schiavi delle Pellegrine. Lo chiamai, ma, quando volse la testa per guardarmi, compresi di essermi sbagliato.

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