Patricia McKillip - L'erede del mare e del fuoco

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L'erede del mare e del fuoco: краткое содержание, описание и аннотация

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La terra di Hed, è risaputo, non è mai stata una fucina di eroi. Tutti i suoi abitanti — compresi i principi che la reggono — sono contadini, ed anche Morgon, Signore di Hed, è un contadino. Ma non solo questo. Perché in un mondo da cui la magia è misteriosamente scomparsa in un remoto passato, e nel quale il sapere esoterico è affidato ai Signori degli indovinelli, Morgon può essere considerato un adepto, il miglior allievo della scuola di Caithnard, unico risolutore di un indovinello rimasto inspiegabile per oltre settecento anni. E poi Morgon ha tre stelle in fronte, identiche a quelle incise su un’arpa che solo lui può suonare e sull’elsa di una spada che solo lui può impugnare. Così, senza volerlo, il principe di Hed viene coinvolto in un viaggio fantastico e in un’avventura misteriosa, nel viaggio verso la montagna di Erlenstar assieme all’arpista del Supremo, per cercare risposta a una domanda che neppure lui ancora conosce. Con l’aiuto di Raederle, la donna che ama e per la quale ha vinto una sfida, Morgon affronterà un difficile cammino esistenziale e avventuroso, cercando la soluzione dell’enigma che lega passato e futuro, e combattendo Ohm, il mago corrotto che vuole alterare gli equilibri del mondo.

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Il guizzo di terrore e di furia che nacque nei pensieri di Raederle s’impadronì del riflesso sulla lama del coltello e lo trasformò in un’abbagliante freccia di luce bianca, che si conficcò negli occhi di Ohroe. L’individuo ansimò, lasciando cadere l’arma. Le rabbiose gomitate con cui Rood cercava d’ammaccargli le costole attraverso la cotta di maglia sembrarono aver poco effetto, ma quando l’altro si trovò con la testa avvolta da un piccolo sole di fuoco fu costretto a portarsi le mani al viso. Rood lo spinse via e corse alla parete destra del salone, staccando dal muro la grossa spada di bronzo antico che era appesa lì fin dalla morte del Re Hagis. Agitandola ferocemente andò a mettersi al fianco di Duac, che però alzò le mani in un gesto rabbioso: — Vuoi abbassare quest’arma, per favore? L’ultima cosa che voglio è un torneo alla spada in questa casa!

I Re di Hel s’erano riuniti compatti, senza produrre alcun rumore ma più solidi che mai. Davanti a loro l’arpista, lo sguardo perso nel vuoto come se la sua attenzione fosse focalizzata su tutt’altri avvenimenti lontani, sembrò risaltare per la sua immobilità assoluta; nel vederlo Rood imprecò fra i denti. Impugnò la spada saldamente e disse: — Non mi fanno paura. Male che vada ci troveremo ad essere fantasmi anche noi, e ci batteremo come si battono loro. Chi li ha portati qui? Deth?

— Raederle.

Rood si volse di scatto. Solo allora parve accorgersi della presenza della sorella, seminascosta dalla figura di Duac. Vide i suoi capelli scarmigliati, il viso stanco, il teschio fra le sue mani, e la punta della spada si abbassò sul pavimento con un lieve tintinnio. Un fremito di sorpresa gli increspò la bocca.

— Raederle? Ti ho guardata senza neanche riconoscerti, così conciata! — Gettò la spada sui mosaici del pavimento e le si avvicinò, tendendo le braccia, ma le sue mani ricaddero prima di toccarla. Nello sguardo stranito che le diede ella lesse che dentro di lui qualcosa si torceva, esitava, avvertendo i suoi nuovi e insoliti poteri. Rood mormorò: — Cosa ti è successo? Cos’è che accade a tutti quelli che tentano di fare questo dannato viaggio al Monte Erlenstar?

Lei deglutì a vuoto. Tolse una mano dal teschio per sfiorargli un braccio. — Rood…

— Dove hai preso questi poteri? Sono molto diversi da qualsiasi cosa tu abbia mai avuto in passato.

— Li ho sempre avuti.

— E da cosa li hai avuti? Io sono qui che ti guardo, e mi sembra di non sapere neanche chi sei!

— Tu sai chi sono — sussurrò lei, con la gola secca. — Io appartengo ad An e…

— Rood! — lo chiamò Duac. Nella sua voce c’era una nota d’apprensione così strana che il fratello fu indotto a distogliere gli occhi dal volto di Raederle. Duac stava fissando la soglia del salone; annaspò con una mano dietro di sé come per invocare Rood accanto a sé. — Rood… quell’uomo! Chi è quell’uomo? Non dirmi che quello che sto pensando è vero…

Rood non ebbe fiato per rispondere. Dall’ingresso era appena entrato, senza far rumore, senza proiettare ombra, in sella a un grande cavallo nero i cui occhi erano morti come quelli del teschio di Farr, un uomo la cui fronte era ornata da una corona sul cui centro splendeva una singola gemma rossa. Era abbronzato, massiccio, muscoloso; i foderi del suo coltello e dello spadone erano intrecciati d’oro; la tunica che portava sopra la cotta di maglia era ricamata con l’antichissimo emblema di An: una quercia verde, tagliata da un fulmine di luce nera. Aveva lasciato il suo seguito all’esterno, cavalieri che dovevano essere emersi dai campi e dai frutteti intorno ad Anuin. Dietro costoro Raederle poté vedere le guardie di Duac e i servi che cercavano di spezzare la loro fila per gettarsi avanti. Ma avrebbe più facilmente sfondato un muro di pietra. L’effetto che l’arrivo dell’uomo incoronato ebbe sui fantasmi della sala fu immediato: tutte le loro spade vennero sguainate di colpo. Farr si mosse avanti livido in faccia, mentre lo squarcio rosso che gli inanellava il collo sembrava pulsare e gettare sangue, e protese l’arma. Ignorando Farr gli occhi del Re morto si spostarono lentamente sui presenti, fermandosi su Duac. Il cavallo nero si arrestò.

— Oen!

L’esclamazione di Rood gli guadagnò un attimo di attenzione da parte dell’antico Re, ma subito egli tornò a guardare Duac. Lo salutò inchinando appena la testa, quindi in tono duro e tuttavia controllato disse: — La pace sia su questa casa e coloro che la abitano. Possa il disonore non entrarvi mai. — Tacque, senza distogliere lo sguardo dal volto di Duac, quasi che avvertisse in lui quell’istinto senza tempo basato sulle leggi della terra e insieme a ciò anche qualcos’altro. Ebbe una secca risata priva d’allegria. — Tu hai una faccia che viene dal mare. Ma tuo padre è più fortunato di me. Non hai preso molto dal mio Erede, salvo una somiglianza.

Palesemente turbato Duac stentò a ritrovare la voce. — Pace… — La parola tremolò nell’aria, ed egli deglutì. — Mi auguro che tu sia venuto a portare la pace in questa casa, e che andandotene tu lasci la pace dietro di te.

— Questo non posso farlo. C’è un giuramento che mi lega, oltre la morte.

Duac socchiuse gli occhi, e alle labbra gli affiorò un’imprecazione quasi inudibile. Oen si decise a voltarsi verso Farr; i loro occhi si incontrarono attraverso la stanza, per la prima volta dopo sei secoli durante i quali s’erano sognati l’un l’altro nel buio dei loro sepolcri. — Io ho giurato che fin quando i Re regneranno ad Anuin, la testa di Farr di Hel avrebbe regnato nella mia mensa, in cima a una picca.

— E io ho giurato — ringhiò Farr, — che non avrei chiuso occhio nella mia tomba finché l’ultimo Re di Anuin non giacerà nella sua.

Oen inarcò le folte sopracciglia. — Già una volta hai perduto la tua testa. Io ho udito che una donna di Anuin ha portato il tuo cranio da Hel fin qui, e a sua vergogna ha aperto le porte di questa casa ai morti di Hel. Io sono venuto per ripulirla da questa spazzatura. — Gettò un’occhiata a Raederle. — Dammi quel teschio, donna!

La ragazza restò stupita dal disprezzo che l’uomo aveva nella voce e negli occhi, quegli occhi freddi e calcolatori che avevano sorvegliato la costruzione di una torre presso il mare, oltre le cui finestre sbarrate si preparava la prigione del suo Erede. — Tu! — sussurrò. — Tu che porti vuote parole in questa casa, cosa ne hai mai saputo della pace? Tu hai vissuto incatenato alla tua mente ristretta e alle tue guerre. E morendo hai lasciato dietro di te ben altro enigma, ad Anuin, che una faccia color del mare. Sei venuto per batterti con Farr sul suo teschio, come due cani che altercano su un osso. Dici che io ho tradito la mia casa: cosa ne sai dei tradimenti? Sei uscito dalla terra per vendicarti: cosa ne sai della vendetta? Ti sei illuso che avresti visto la fine degli strani poteri di Ylon quando l’hai rinchiuso in quella torre, con tanta scarsa compassione e con ancor minore intelligenza. Avresti dovuto capire che non potevi mettere le catene alla sua angoscia e al suo dolore. Hai aspettato dei secoli per batterti ancora con Farr? Ebbene, io ti dico che prima di snudare la tua spada in questa casa dovrai batterti con me!

Raederle strappò la luce dagli scudi, dalle armature, dalle corone ingioiellate e dalle mattonelle del pavimento, e circondò Oen e il suo cavallo in un lampeggiante cerchio di bagliori. Si guardò attorno in cerca di una sorgente di fuoco, ma nel salone non era accesa neppure una candela. Fu così costretta a cercare in sé il ricordo della fiamma, di quell’elemento fluttuante e informe che aveva padroneggiato sotto lo sguardo incollerito di Farr. Scagliò l’illusione del fuoco intorno alle forme illusorie dei morti. Spalancò le mani e mostrò loro come sapeva plasmarlo, facendolo fiammeggiare alto nell’aria e mandandolo ad espandersi in onde roventi sul pavimento. Li circondò di lingue ardenti e incalzanti, inducendoli a stringersi l’uno accanto all’altro per sfuggirgli. Poi arse con sbuffi di fiamma i loro scudi e li vide immediatamente gettarli via come ustionati, mandandoli a rimbalzare senza rumore per il salone. Inanellò di fuoco le loro corone, e i Re se ne liberarono scaraventandole in aria come ruote di fiamma. Con gli orecchi della mente udì lontano e indistinto lo squittire degli uccelli marini. Poi in lei crebbe sonora la grande voce del mare.

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