— Io non ho mai fatto niente di niente, in vita mia.
— Tu mi hai dato la verità.
Lei tacque, immobile nella stretta dura delle sue mani, gli occhi fissi sul volto di lui che ora le si rivelava, amaro, vulnerabile, senza legge, così come oltre un ciuffo di capelli le si rivelarono le tre stelle sulla sua fronte. Alzò le mani e anch’ella gli strinse le braccia. Mormorò: — Morgon, ti prego stai attento.
— A che cosa? E perché dovrei? Sai chi trovai ad accogliermi là, quel giorno in cui Deth mi condusse dentro il Monte Erlenstar?
— Sì.
— Il Fondatore di Lungold è stato seduto su quel trono all’apice del mondo per secoli, dispensando la sua giustizia nel nome del Supremo. Dove posso andare a chiedere giustizia? L’arpista è un senzaterra, non ha legami con i Re e con la loro legge; il Supremo sembra del tutto incurante del mio e del suo destino. Importerà a qualcuno se lo uccido? In Ymris o nella stessa An, nessuno troverà mai da discutere su…
— Nessuno vorrà mai discutere ciò che tu fai! Sei tu la tua legge, sei tu la tua giustizia! Danan, Har, Hereu, la Morgol… tutti loro ti daranno sempre ciò che vuoi per rispetto al tuo nome e per la verità che tu porti con te. Ma, Morgon, se tu crei la tua legge, dove potranno andare gli altri se avranno bisogno di chiedere giustizia contro di te?
Gli occhi di lui rivelarono un guizzo d’incertezza. Poi scosse il capo, lentamente, testardamente. — Soltanto una cosa chiedo. Non più di una. E comunque, non c’è dubbio che qualcuno lo ucciderà… i maghi ne hanno il motivo. Forse Ghisteslwchlohm stesso lo farà. Io ne ho il diritto.
— Morgon…
Le mani con cui la stringeva si fecero ancor più dure, adunche. Non stava più guardando lei, bensì qualcosa di orrido e oscuro rimasto nella sua memoria. Alcune gocce di sudore gli si formarono sulla fronte, i muscoli facciali gli s’irrigidirono. Sussurrò: — Mentre Ghisteslwchlohm era nella mia mente, nient’altro esisteva. Ma nei momenti in cui lui… lui mi lasciava, e mi rendevo conto d’essere ancora vivo, disteso in una buia e vuota caverna di Erlenstar, io potevo udire Deth che suonava. Talvolta suonava canzoni di Hed. Mi ha dato qualcosa per cui vivere.
Lei chiuse gli occhi. Il volto elusivo dell’arpista apparve nella sua mente, si confuse e sfumò. Le mani dure e tremanti di Morgon le comunicarono la sua confusione e la sua rabbia, e il tradimento dell’arpista le apparve un enigma assurdo e incomprensibile che nessuna spiegazione avrebbe potuto giustificare, e che nessun Maestro nella quiete della sua biblioteca sarebbe riuscito a districare. Il tormento di lui le diede l’angoscia; la sua solitudine era un immenso vuoto pozzo dove le parole di lei cadevano come pietre per sparire nel buio. Solo allora capì come potesse esser bastata una sua parola per far sbarrare a Deth una Corte dopo l’altra, un regno dopo l’altro, mentre lui seguiva la sua segreta e difficoltosa strada attraverso il reame. In un sussurro ripeté le parole di Har: — Gli avrei dato perfino le cicatrici-vesta che ho sulle mani! — Finalmente la stretta di lui si rilassò. Abbassò gli occhi su di lei e tacque a lungo, prima di dire:
— Tu però non mi riconosci questo unico diritto.
Lei scosse il capo. Parlare le costò uno sforzo. — Tu potrai ucciderlo. Ma anche da morto continuerà a divorarti il cuore, finché non lo avrai capito.
Le mani di lui ricaddero. Le volse le spalle e tornò alla finestra. Sfiorò i vetri che aveva irretito di crepe, poi si girò bruscamente. Nell’ombra lei poté a malapena vedere il suo volto; la voce gli uscì rauca.
— Devo andare. Non so quando potrò rivederti ancora.
— Dove stai andando?
— Ad Anuin. Per parlare a Duac. Sarò già ripartito prima che tu arrivi là. È meglio a questo modo, per entrambi. Se mai Ghisteslwchlohm capisse in che modo può far uso di te, io sarei perduto; potrebbe chiedermi il cuore e io me lo strapperei dal petto con le mie stesse mani.
— E poi dove andrai?
— A cercare Deth. E poi, io non… — Improvvisamente si accigliò. Il silenzio gli si infittì attorno come se stesse ascoltando qualcosa; la sua figura parve tremolare nella debole luce delle candele. Lei tese gli orecchi, ma non udì altro che il sussurro del vento sulle fiammelle oscillanti, e gli enigmi senza parole mormorati dal mare. Fece un passo verso di lui.
— È Ghisteslwchlohm? — L’immobilità di lui le incrinò la voce. Egli non rispose, e la fanciulla non riuscì a capire se l’avesse udito o meno. D’un tratto la paura le strinse la gola; sussurrò: — Morgon! — Lui si volse lentamente a guardarla, trattenendo il respiro. Ma non si mosse finché non fu lei ad avvicinarsi. Poi le passò le braccia attorno con dolcezza, stancamente, e chinò il volto fra i suoi capelli.
— Devo andare. Poi tornerò da te, ad Anuin. Per essere giudicato.
— No…
Lui scosse lievemente la testa, indietreggiando. Mentre le sue mani scivolavano via da lui Raederle sentì la strana, quasi informe, tensione dell’aria intorno al suo corpo. Ebbe l’impressione che sotto la larga toga portasse appesa una spada, ma i contorni di lui si fecero incerti. Lo udì dire qualcosa che non comprese, con voce che si mescolava al mormorio del vento. La figura di lui divenne un’ombra striata di riflessi di luce, e poi fu soltanto un ricordo.
La giovane donna si spogliò e andò a letto, ma restò sveglia a lungo prima di cadere in un sonno tormentato. Qualche ora più tardi si svegliò di colpo, sconvolta, sbarrando gli occhi nelle tenebre. La sua mente era un groviglio di pensieri che si affollavano, di nomi, di desideri, di ricordi, di angosce; era un calderone da cui si rovesciavano fuori avvenimenti, impulsi, voci inarticolate. Sedette sul letto, domandandosi quale cambiaforma avesse attorcigliato la mente dentro la sua; ma in lei ci fu la repentina certezza che tutto ciò non aveva a che fare con loro, e che era invece lei a protendere la mente e gli occhi verso An, come se la sua vista potesse oltrepassare la pietra, la distanza e la notte. Sentì che il cuore ricominciava a batterle. Le sue radici la attiravano; la sua eredità fatta di boschi e colli erbosi, torri semidiroccate, nomi di Re, guerre e leggende, aveva spinto i suoi pensieri verso una terra dove vibrava il caos, una terra che era stata lasciata senza governo troppo a lungo. Si alzò in piedi e si coprì il viso con le mani, riuscendo finalmente a capire due cose: l’intera An si stava agitando e sollevando. E la via che il Portatore di Stelle seguiva lo avrebbe condotto dritto attraverso Hel.
All’alba partì da Caithnard a cavallo, e per un giorno e mezzo viaggiò nell’immensa foresta di querce che costituiva il confine settentrionale di Hel, sforzandosi come mai aveva fatto prima di tendere tutti i poteri e tutta la consapevolezza della sua mente. Sin da quando era penetrata nella boscaglia aveva sentito la presenza di qualcosa che si muoveva molto più avanti, qualcosa d’indistinguibile, qualcosa che sembrava avere un impellente bisogno di rapidità e di segretezza. E la seconda notte, sveglia e all’erta nel buio, le era parso di vedere per un terribile istante quella che poteva essere la forma di un’enorme bestia sollevarsi nel chiarore lunare; una potente, inarrestabile e rabbiosa mente focalizzata su un singolo pensiero di distruzione.
Il giorno dopo, a meridione della foresta, si fermò a guardare le vaste terre di Hallard Albanera, e si chiese quale forma Morgon avesse assunto per attraversarle. I pascoli digradavano pian piano verso il fiume che scorreva accanto alla dimora del Nobile, e all’apparenza sembravano un’oasi di tranquillità, ma su di essi non si vedeva neppure un animale. In lontananza poteva udire una muta di segugi che abbaiavano, in un coro rauco e funereo, selvaggio e interminabile. Nei campi dietro la casa non c’era neppure un contadino al lavoro, e questo non la sorprese. Quell’angolo di Hel era stato l’ultimo campo di battaglia nelle ormai quasi dimenticate guerre fra Hel e An; aveva dato sostegno ai suoi soldati in un’interminabile serie di scontri feroci e disperati, finché Oen di An, risalendo a marce forzate da Aum sei secoli addietro, aveva quasi sprezzantemente travolto gli ultimi capisaldi della resistenza e fatto decapitare l’ultimo Re di Hel, che aveva trovato rifugio proprio lì. Da allora storie e leggende avevano tormentato quella terra; un acquazzone poteva ancora disseppellire un’antica spada corrosa dalla ruggine, o il manico spezzato di una lancia inanellato d’oro. In tanti secoli il Re Farr di Hel, privo della testa, aveva avuto tutto l’agio di ponderare sui lutti che aveva subito e, libero alfine dalla terra, non ci avrebbe messo molto tempo per tirar fuori le sue ossa dai campi di Hallard. Il caos di voci che Raederle aveva udito due notti prima s’era smorzato in una spaventosa quiete: la morte era libera, vigile, e occupata a tessere i suoi piani.
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