Makepeace era come pietrificato, con gli occhi fuori dalle orbite per la paura. «Mio Dio, ragazzo, quel vomere si è mosso !»
«Lo so» disse Alvin.
«Ma chi sei, ragazzo? Il demonio?»
«Non credo» sorrise Alvin. «Anche se può darsi che l’abbia incontrato un paio di volte.»
«Vattene di qui! Prenditi quella cosa e vattene! Non voglio più vedermi intorno la tua faccia!»
«Avete ancora la mia patente di libero artigiano» gli ricordò Alvin. «La voglio.»
Makepeace si frugò in tasca, ne tirò fuori un foglio piegato in quattro e lo gettò sull’erba davanti alla fucina. Poi allargò le braccia, afferrò le porte scorrevoli e le chiuse di scatto come non faceva quasi mai, neanche d’inverno. Chiusi ermeticamente i battenti, li fermò a paletto dall’interno. Povero sciocco. Se avesse voluto veramente entrare nella fucina, Alvin avrebbe potuto sfondarne le pareti senza la minima difficoltà. Il giovane fece qualche passo avanti e si chinò a raccogliere il foglio. Lo aprì e lo lesse… Era stato firmato. Era legale. Alvin era un libero artigiano.
Il sole stava per fare capolino all’orizzonte quando Alvin arrivò alla porta del vecchio deposito. Naturalmente era chiusa a chiave, ma serrature e talismani non potevano certamente fermarlo, soprattutto quando era stato lui stesso a fabbricarli. Aprì la porta ed entrò. Arthur Stuart si mosse nel sonno. Alvin gli toccò la spalla per svegliarlo. Poi s’inginocchiò accanto al letto e raccontò al ragazzo la maggior parte di ciò che era successo durante la notte. Gli mostrò il vomere d’oro facendogli vedere come si muoveva. Arthur rise di gioia. Poi Alvin gli disse che la donna che egli aveva chiamato mamma fin da quando era piccolissimo era morta, uccisa dai Cacciatori, e Arthur pianse a calde lacrime.
Ma non a lungo. Era troppo piccolo perché il dolore rimanesse in lui più di tanto. «Hai detto che anche lei ne ha ammazzato uno prima di morire?»
«Col fucile di tuo padre.»
«Brava!» disse Arthur Stuart, in tono così adulto che Alvin quasi si mise a ridere.
«L’altro l’ho ammazzato io. Quello che le aveva sparato.»
Arthur tese la mano, prese la destra di Alvin e l’aprì. «L’hai ammazzato con questa mano?»
Alvin annuì.
Arthur gli baciò il palmo.
«L’avrei guarita, se avessi potuto» spiegò Alvin. «Ma è morta troppo in fretta. Anche se fossi stato lì un istante dopo che le avevano sparato, non sarei riuscito a guarirla.»
Arthur Stuart tese le braccia, si aggrappò al collo di Alvin e pianse ancora un po’.
Ci volle un giorno per seppellire la vecchia Peg, là sulla collina accanto alle sue figlie e al fratello di Alvin, Vigor, e alla mamma di Arthur morta che era ancora una bambina. «Un luogo per gente coraggiosa» disse il dottor Physicker, e Alvin capì che aveva ragione, anche se Physicker non sapeva della piccola schiava nera.
Alvin lavò il pavimento e le scale della locanda per ripulirli dalle macchie di sangue, usando il suo dono per togliere il sangue che la liscivia e la sabbia non erano riuscite a rimuovere. Fu l’ultimo dono che poté fare a Horace e a Peggy. A Margaret. Alla signorina Larner.
«Ora devo andare» disse loro. Li aveva trovati seduti in poltrona nella sala comune della locanda, dove per tutto il giorno avevano ricevuto visite di condoglianza. «Porto Arthur dai miei, a Vigor Church. Laggiù sarà al sicuro. E poi riprenderò il cammino.»
«Grazie di tutto» disse Horace. «Sei stato un buon amico. La vecchia Peg ti voleva bene.» Poi scoppiò nuovamente in lacrime.
Alvin gli batté affettuosamente sulla spalla, poi si avvicinò a Peggy, restando in piedi di fronte a lei. «Tutto quello che sono, signorina Larner, lo debbo a voi.»
Lei scosse la testa.
«Tutto quello che vi ho detto lo pensavo davvero. E lo penso ancora.»
Lei scosse nuovamente la testa. Alvin non ne fu sorpreso. Peggy aveva appena perso sua madre, morta prima di sapere che sua figlia era tornata a casa, e Alvin non si aspettava certamente che, dopo un fatto del genere, lei potesse andarsene di casa come se non fosse successo nulla. Qualcuno doveva pur aiutare Horace Guester a mandare avanti la locanda. Era tutto molto logico. Eppure si sentiva trafiggere il cuore, perché adesso più che mai sapeva che era vero… Egli l’amava. Ma Peggy non era fatta per lui. Questo era certo. Una donna come lei, così bella, istruita e fine avrebbe potuto fargli da maestra, questo sì, ma non avrebbe mai potuto amarlo come egli l’amava.
«Bene, allora, penso che sia il momento di salutarci» disse Alvin. Tese la mano, quantunque sapesse che era un po’ sciocco stringere la mano di qualcuno che soffriva come lei in quel momento. Ma avrebbe tanto desiderato prenderla tra le braccia e stringerla forte, come aveva fatto con Arthur Stuart quando il piccolo si era messo a piangere, e una stretta di mano era quanto di più vicino potesse esserci a ciò che desiderava.
Peggy vide il suo gesto, e gli prese la mano. Ma non la scosse come quando ci si saluta; la strinse e basta, la serrò con forza e a lungo. Alvin fu colto di sorpresa. Nei mesi e negli anni a venire, Alvin avrebbe ripensato spesso al calore di quella stretta. Forse significava che anche lei lo amava. O forse voleva dire soltanto che provava per lui l’affetto di una maestra per l’alunno, oppure lo ringraziava per aver vendicato la morte di sua madre… Alvin non aveva modo di saperlo. Eppure continuò a tenersi aggrappato a quel ricordo, nell’eventualità che fosse davvero un pegno del suo amore.
E mentre lei gli teneva la mano in quel modo, Alvin le fece una promessa; gliela fece anche se non sapeva quanto lei l’avrebbe gradita. «Tornerò» disse. «E quello che vi ho detto ieri sera sarà ancora vero.» Poi dovette chiamare a raccolta tutto il suo coraggio per chiamarla col nome che lei gli aveva consentito di usare. «Dio sia con te, Margaret.»
«Dio sia con te, Alvin» mormorò lei.
Poi Alvin andò a cercare Arthur Stuart, che era stato impegnato a sua volta con i saluti, e lo condusse fuori. Insieme andarono al fienile sul retro della locanda, dove Alvin aveva nascosto il vomere d’oro in fondo a un barile di fagioli. Il giovane alzò il coperchio e tese la mano, e il vomere riemerse da solo in uno sfolgorio d’oro. Allora Alvin lo prese, lo avvolse in un pezzo di tela, e poi lo infilò in un sacco che si gettò sulla spalla.
Alvin s’inginocchiò, tendendo la mano come faceva sempre quando voleva che Arthur Stuart gli montasse a cavalluccio. Arthur obbedì, pensando che fosse solo un gioco… Un ragazzo di quell’età non poteva restare triste per più di un paio d’ore alla volta. Così salì d’un balzo sulle spalle di Alvin, ridendo e saltando su e giù.
«Stavolta sarà una bella sgroppata, Arthur Stuart» disse Alvin. «Ce ne andiamo a casa dei miei, a Vigor Church.»
«E ce la facciamo tutta a piedi?»
« Io andrò a piedi. Tu invece andrai a cavallo.»
«Arri!» esclamò Arthur Stuart.
Alvin partì al piccolo trotto, ma in breve già correva a tutta velocità, e senza mai metter piede sulla strada. Puntò direttamente verso l’aperta campagna, traversando campi, saltando staccionate, e infine facendo ingresso nei boschi, che ancora crescevano in vaste chiazze irregolari tra l’Hio e il Wobbish, tra lui e casa sua. Il canto verde era molto più debole di quando i Rossi avevano quei territori tutti per sé. Eppure era ancora abbastanza forte perché Alvin Smith potesse udirlo. Si lasciò trasportare dal ritmo del canto verde, correndo come solo i Rossi sapevano fare. E Arthur Stuart… forse anche lui riusciva a udire un’eco del canto verde, quel tanto che bastò a farlo addormentare lì dove si trovava, sulle spalle di Alvin. Il mondo era scomparso. Solo Alvin, Arthur Stuart, il vomere d’oro… e il mondo intero che cantava intorno a lui. Adesso sono un viaggiatore. E questo è il mio primo viaggio.
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