No, ad accecarla doveva essere stata la natura stessa di ciò che Alvin aveva fatto. Proprio com’era accaduto anni prima, quando Peggy non era riuscita a vedere in che modo era uscito sano e salvo dal confronto col Distruttore, o quella notte stessa quando non lo aveva visto trasformare il piccolo Arthur sulla riva dell’Hio, così non le era stato dato di vedere ciò che lui aveva fatto nella fucina. La creazione che egli aveva compiuto quella notte andava oltre i futuri che il dono di Peggy era in grado di scorgere.
Sarebbe stato sempre così? Sarebbe rimasta sempre accecata quando Alvin vinceva le sue battaglie più importanti? Peggy provò rabbia e paura insieme: a che serve il mio dono, si disse, se mi abbandona proprio quando ne avrei più bisogno?
No. Stavolta non mi sarebbe servito a nulla. Quando Alvin si è gettato tra le fiamme non aveva alcun bisogno di me o della mia seconda vista. Il mio dono non mi ha mai abbandonato quando ne avevo veramente bisogno. In questo caso, è soltanto il mio desiderio a essere rimasto irrealizzato.
Bene. Ora però Alvin ha bisogno di me, pensò Peggy. S’incamminò badando bene a dove metteva i piedi; la luna era bassa sull’orizzonte, le ombre fitte, il sentiero in discesa traditore. Quando svoltò l’angolo della fucina, la luce della forgia che si riversava sull’erba era quasi accecante, di un rosso così violento che l’erba non appariva più verde bensì di un nero lucente.
All’interno della fucina, Alvin giaceva rannicchiato sul pavimento di terra battuta col viso rivolto alla forgia. Il suo respiro era rapido, affannoso. Dormiva? No. Era nudo; a Peggy bastò un istante per rendersi conto che il calore della forgia doveva avergli bruciato i vestiti. Straziato dal dolore com’era, Alvin non se n’era accorto, e adesso non ne serbava alcun ricordo; per questo Peggy non l’aveva visto accadere quando aveva frugato la sua fiamma vitale in cerca di ricordi.
La sua pelle era straordinariamente liscia e pallida. Qualche ora prima, Peggy l’aveva vista abbronzata dal sole e dal calore della forgia. Qualche ora prima, egli aveva avuto mani callose e segnate dalle cicatrici d’innumerevoli piccole scottature, i normali incidenti di chi lavora vicino al fuoco. Ora invece la sua pelle era liscia e intatta come quella di un bambino. Peggy non riuscì a trattenersi; varcò la soglia della fucina, s’inginocchiò accanto a lui, e gli fece scorrere delicatamente la mano sulla schiena, dalla spalla al punto in cui il torace si restringeva sopra le anche. La pelle di Alvin era così morbida da darle l’impressione che le mani le si fossero improvvisamente irruvidite, e che il semplice atto di toccarlo potesse in qualche modo deturparlo.
Alvin trasse un profondo sospiro. Quasi un gemito. Peggy ritirò la mano.
«Alvin» disse. «Stai bene?»
Alvin mosse il braccio; stringeva a sé qualcosa e lo carezzava. Solo in quel momento Peggy lo vide: un riflesso giallo nell’ombra doppiamente fitta del corpo di Alvin e della forgia. Un vomere d’oro.
«È vivo» mormorò Alvin.
Quasi in risposta, Peggy scorse il vomere muoversi fluidamente sotto la mano di Alvin.
Naturalmente non bussarono. A quell’ora di notte? Chi si trovava all’interno avrebbe capito immediatamente che non si trattava di un ospite ritardatario… Potevano essere solo i Cacciatori. Bussare alla porta avrebbe messo immediatamente sull’avviso gli abitanti della locanda, favorendo eventuali tentativi di fuga insieme al ragazzo.
Ma il Cacciatore dai capelli neri non provò nemmeno a sollevare il paletto. Sferrò una violenta pedata e la porta rovinò verso l’interno, portandosi dietro il cardine più alto. Poi, col fucile imbracciato, varcò d’un balzo la soglia perlustrando con lo sguardo la sala comune. Alla fioca luce del fuoco che si andava spegnendo, i due videro che non c’era nessuno.
«Io tengo d’occhio le scale» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «Tu vai a controllare la porta sul retro per vedere se qualcuno cerca di svignarsela da quella parte.»
Il Cacciatore dai capelli neri avanzò in fretta passando davanti alle scale e alla porta di cucina. Giunto all’ultima porta la spalancò. Prima che il battente si richiudesse, il Cacciatore dai capelli bianchi era già arrivato a metà delle scale.
La vecchia Peg uscì carponi da sotto il tavolo di cucina. Nessuno dei due aveva degnato della minima attenzione quella porta. Lei non sapeva di chi si trattasse, naturalmente, ma sperava, sperava che fossero i Cacciatori, tornati indietro di soppiatto perché in qualche modo, per qualche miracolo, Arthur Stuart era riuscito a scappare e loro non riuscivano più a trovarlo. La vecchia Peg si tolse le scarpe e dalla cucina avanzò cautamente sul pavimento della sala comune, verso il caminetto sopra cui Horace teneva appeso un fucile carico. Si alzò in punta di piedi e lo staccò, ma così facendo rovesciò una teiera di latta che, nel corso della serata, qualcuno aveva lasciato a scaldare davanti al fuoco. La teiera rotolò rumorosamente; l’acqua bollente le schizzò sui piedi nudi; la vecchia Peg si lasciò sfuggire un grido soffocato.
Immediatamente udì un rumore di passi sui gradini di legno. Ignorando il dolore, corse ai piedi delle scale, appena in tempo per veder scendere il Cacciatore dai capelli bianchi. L’uomo aveva un fucile puntato verso di lei. Anche se non aveva mai sparato a un essere umano in vita sua, la vecchia Peg non esitò un solo istante. Tirò il grilletto; il fucile le rinculò violentemente contro la pancia, mozzandole il fiato e sbattendola contro il muro accanto alla porta di cucina. Ma lei quasi non se ne accorse. Vide soltanto che il Cacciatore dai capelli bianchi era rimasto immobile, col viso che improvvisamente gli si rilassava fino ad assumere l’espressione stolida del muso di una mucca. Poi sulla camicia gli fiorì una grande macchia rossa, e l’uomo si abbatté all’indietro.
Hai finito di rubare bambini alle loro mamme, pensò la vecchia Peg. Hai finito di trascinare quei poveri Neri verso una vita di fatiche e di frustate. Ti ho ammazzato, Cacciatore, e spero che il Signore se ne rallegri. Ma anche se per questo dovessi andare all’inferno, sono contenta lo stesso.
Era così assorbita a guardarlo da non accorgersi che la porta posteriore era aperta, mantenuta in quella posizione dalla canna del fucile del Cacciatore dai capelli neri, puntata verso di lei.
Alvin era così intento a raccontare a Peggy quello che aveva fatto che non si era nemmeno accorto di essere nudo. Peggy allora staccò il grembiule di cuoio appeso a un piolo, ed egli se lo mise per pura forza dell’abitudine, senza nemmeno pensarci. Peggy udiva a malapena le sue parole; tutto ciò che Alvin le diceva lei lo sapeva già, per aver guardato nella sua fiamma vitale. Intanto lo guardava e pensava: ora è un Creatore, in parte grazie a ciò che io stessa gli ho insegnato. Forse il mio compito è finito, forse adesso la mia vita apparterrà soltanto a me… Oppure no, forse questo è solo un inizio, forse adesso posso trattarlo come un uomo, non come un allievo o un pupillo. Alvin sembrava ardere di un fuoco interiore; a ogni passo che faceva, si muoveva anche il vomere d’oro, che tuttavia non si limitava a seguirlo o a metterglisi tra i piedi, ma scivolava su un percorso simile a un’orbita, non tanto vicino da infastidirlo però abbastanza da poter rispondere al suo comando; come una parte del suo stesso corpo, anche se distinta e separata da lui.
«Lo so» disse Peggy. «Capisco. Adesso sei davvero un Creatore.»
«Non solo!» esclamò lui. «È la Città di Cristallo! Ora so come costruirla, signorina Larner. Capite, la città non è composta dalle torri di cristallo che ho visto quella volta, bensì dalla gente che vi abita e, se voglio costruirla, devo trovare le persone adatte, persone sincere e fedeli come questo vomere, persone capaci di condividere il mio sogno al punto da aiutarmi a realizzarlo, per poi proseguire la mia opera anche quando non ci sarò più. Capite, signorina Larner? La Città di Cristallo non è qualcosa che possa essere costruita da un solo Creatore. È una città di Creatori; io debbo cercare persone di ogni tipo, e in qualche modo ricavarne dei Creatori.»
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