Margaret Weis - Il destino dei gemelli

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«Me niente bere?» cominciò a dire Raf, poi colse l’occhiata furibonda di Tika. «Me fare.»

Sospirando deluso, il nano dei burroni riprese lo straccio e lo passò sul pavimento, borbottando «Spreco buona birra...» Poi raccolse uno per uno i pezzi dei boccali rotti, e dopo averli fissati per qualche istante, sogghignò e se li cacciò nelle tasche della camicia.

Per un breve istante Tika si chiese che cosa avesse intenzione di farci, ma sapeva che era più saggio non chiederlo. Tornata al bancone ghermì altri boccali e li riempì, cercando di non badare a Raf che si era tagliato con alcuni dei frammenti più affilati e adesso si era accovacciato sui calcagni, osservando con vivo interesse il sangue che gli gocciolava dalla mano.

«Hai... uhm... visto Caramon?» chiese Tika al nano dei burroni in tono disinvolto.

«No.» Raf si pulì la mano insanguinata sui capelli. «Ma me sapere dove guardare.» Balzò in piedi con foga. «Me andare a trovare?»

«No!» scattò Tika, corrugando la fronte. «Caramon è a casa.»

«Me pensa di no,» disse Raf scuotendo la testa. «Non dopo che sceso sole...»

«È a casa!» sbottò Tika con tanta rabbia che il nano dei burroni si ritrasse da lei impaurito.

«Vuoi fare scommessa?» borbottò Raf, ma a voce molto bassa. In quei giorni l’umore di Tika era infiammato come i suoi avvampanti capelli rossi.

Per sua fortuna Tika non lo sentì. Terminò di riempire i boccali di birra, poi portò il vassoio a un tavolo accanto alla porta dove sedeva un numeroso gruppo di elfi.

Sto aspettando degli amici, ripetè fra sé, fiaccamente. Cari amici. Un tempo sarebbe stata così eccitata, così desiderosa di rivedere Tanis e Riverwind. Adesso, invece... Sospirò, distribuendo i boccali di birra senza quasi accorgersi di ciò che stava facendo. In nome dei veri dei, pregò, che arrivino e se ne vadano in fretta! Se rimanessero... se scoprissero...

A questo pensiero Tika provò un tuffo al cuore. Il labbro inferiore le tremò. Se fossero rimasti, quella sarebbe stata la fine. Pura e semplice. La sua vita sarebbe finita. D’un tratto l’intensità del dolore fu più di quanto potesse sopportare. Affrettandosi a metter giù l’ultimo boccale di birra, Tika si allontanò dagli elfi sbattendo più volte le palpebre. Non notò lo sguardo perplesso che si scambiarono gli elfi mentre fissavano i boccali di birra, e non si ricordò affatto che tutti avevano ordinato del vino.

Semiaccecata dalle lacrime, l’unico pensiero di Tika era quello di fuggire in cucina dove poter piangere senza esser vista. Gli elfi si guardarono intorno cercando un’altra cameriera e Raf, con un sospiro di contentezza, tornò a mettersi carponi e leccò felice il resto della birra.

Tanis Mezzelfo si trovava ai piedi di una piccola altura con lo sguardo fisso sulla strada fangosa, lunga e dritta, che si stendeva davanti a lui. La donna che scortava e le loro cavalcature erano a una certa distanza dietro di lui. La donna aveva avuto bisogno di riposarsi, così come i loro cavalli.

Nonostante il suo orgoglio l’avesse trattenuta dal dire anche una sola parola in proposito, Tanis aveva visto che la sua faccia era grigia e tirata per la fatica. In effetti quel giorno, a un certo punto, si era addormentata in sella con la testa ciondoloni, e sarebbe caduta se non fosse stato per il robusto braccio di Tanis. Perciò, malgrado fosse ansiosa di raggiungere la sua destinazione, non aveva protestato quando Tanis aveva dichiarato di voler esplorare da solo la strada che si stendeva davanti a loro. L’aveva aiutata a scendere da cavallo e l’aveva sistemata in un boschetto nascosto.

Tanis aveva dei dubbi sul fatto di lasciarla incustodita, ma sentiva che le creature di tenebra che li inseguivano erano rimaste molto indietro. La sua insistenza nel voler procedere veloci si era rivelata pagante, malgrado ora sia lui sia la donna fossero doloranti ed esausti. Tanis sperava di mantenere il vantaggio su quelle creature fino a quando non avesse consegnato la sua compagna all’unica persona su Krynn che avrebbe potuto essere in grado di aiutarla.

Avevano cavalcato fin dagli albori del giorno, fuggendo davanti ad un essere che li aveva seguiti sin da quando avevano lasciato Palanthas. Cosa fosse esattamente, malgrado tutta l’esperienza fatta durante le guerre, Tanis non avrebbe saputo dirlo. È ciò rendeva la cosa ancora più spaventevole.

Non era mai là quando lo si affrontava, era possibile intravederlo soltanto con la coda dell’occhio quando questo era intento a guardare qualcos’altro. Anche la sua compagna l’aveva percepito, questo l’aveva capito, anche se, com’era sua caratteristica, era troppo orgogliosa per ammettere di avere paura.

Allontanandosi dal boschetto, Tanis si sentiva colpevole. Sapeva che non avrebbe dovuto lasciarla sola. Non avrebbe dovuto sprecare del tempo prezioso. Tutti i suoi sensi di guerriero protestavano.

Ma c’era una cosa che doveva fare, e doveva farla da solo. Fare altrimenti sarebbe parso un sacrilegio.

E così Tanis si trovava ai piedi della collina, facendo appello a tutto il suo coraggio per andare avanti. Chiunque l’avesse visto avrebbe potuto pensare che stesse avanzando per combattere contro un orco. Ma non era questo il caso. Tanis Mezzelfo stava tornando a casa. E allo stesso tempo bramava e temeva quel primo momento in cui l’avrebbe vista.

Il sole del pomeriggio stava cominciando il suo viaggio all’ingiù verso la notte. Sarebbe stato buio prima che avesse raggiunto la locanda, e temeva di viaggiare lungo le strade di notte. Ma una volta arrivato là, quel viaggio d’incubo sarebbe finito. Avrebbe affidato la donna a mani capaci e avrebbe proseguito per Qualinesti. Ma prima, c’era questo che doveva affrontare. Con un profondo sospiro, Tanis Mezzelfo si tirò il cappuccio verde sopra la testa e cominciò ad arrampicarsi.

Arrivato in cima all’altura, il suo sguardo cadde sopra un grande macigno coperto di muschio. Per un attimo i suoi ricordi lo sopraffecero. Chiuse gli occhi sentendo il pizzicore delle lacrime che gli sgorgavano veloci da sotto le palpebre.

«Stupida cerca,» sentì la voce del nano echeggiare nella sua memoria. «La cosa più sciocca che abbia mai fatto!»

Flint! Mio vecchio amico!

Non posso proseguire, pensò Tanis. Questo è troppo doloroso. Perché mai ho accettato di tornare?

Non rappresenta più niente per me adesso, salvo il dolore delle vecchie ferite. Finalmente la mia vita è buona, finalmente sono in pace, sono felice. Perché... perché gli ho detto che sarei venuto?

Emettendo un tremante sospiro, Tanis aprì gli occhi e fissò il macigno. Due anni prima - sarebbero stati tre questo autunno - era salito in cima a quell’altura e aveva incontrato Flint Fireforge il Nano, suo amico da tanto tempo, seduto su quel macigno intento a scolpire una scheggia di legno, e a lamentarsi, come al solito. Quell’incontro aveva messo in moto eventi che avevano scosso il mondo, culminando nella Guerra delle Lance, la battaglia che aveva riscagliato nell’Abisso la Regina delle Tenebre, infrangendo la potenza dei Signori dei Draghi.

Adesso sono un eroe, pensò Tanis, lanciando una mesta occhiata alla sgargiante panoplia che indossava: il pettorale di cavaliere di Solamnia; una fascia di seta verde, il segno dei Corridori Selvaggi di Silvanesti, la legione più onorata degli elfi; il medaglione di Kharas, la più alta onorificenza dei nani; e altri innumerevoli distintivi. Nessuno - umano, elfo o mezzelfo ora mai stato tanto onorato. Era ironico. Lui che odiava le armature, che odiava le cerimonie, adesso era costretto a indossare un abbigliamento consono alla sua posizione. Adesso il vecchio nano sarebbe scoppiato a ridere. «Tu, un eroe!» Poteva quasi udire la sbuffata del nano. Ma Flint era nell’oblio.

Era morto due anni prima, in primavera, fra le braccia di Tanis.

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