Robert Jordan - Il cuore dell’inverno
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«È l’unica cosa che è andata liscia» gli disse Perrin, prendendo le redini di Resistenza da Neald. L’ Asha’man aggrottò un sopracciglio con aria interrogativa, ma Perrin scosse il capo, incurante di quale fosse la domanda, e Neald, contorcendo la bocca, porse a Elyas le redini del suo castrone grigio prima di montare sul pezzato. Perrin non aveva tempo per i bronci del Murandiano. Rand l’aveva mandato per riportare indietro Masema, e Masema non voleva venire. Come sempre ultimamente quando pensava a Rand, nella testa gli turbinavano dei colori e, come sempre, li ignorò. Masema era un problema troppo serio perché Perrin perdesse tempo a preoccuparsi dei colori. Quel dannato uomo pensava che fosse una blasfemia che chiunque eccetto Rand toccasse l’Unico Potere. Rand, a quanto pareva, non era davvero mortale; era la Luce incarnata! Perciò non avrebbero Viaggiato, nessun rapido balzo a Cairhien attraverso un passaggio aperto da uno degli Asha’man, non importa quanto Perrin avesse tentato di convincere Masema. Avrebbero dovuto cavalcare per quattrocento leghe o forse più, solo la Luce sapeva attraverso cosa. E tenere segrete le loro identità, e quella di Masema. Quelli erano gli ordini di Rand.
«C’è un unico modo, per come la vedo io, ragazzo» disse Elyas come se Perrin avesse parlato ad alta voce. «Un’esile possibilità. Comunque potevamo avere migliori probabilità dando una botta in testa a quel tipo e facendoci strada combattendo.»
«Lo so» ringhiò Perrin. Ci aveva pensato più di una volta durante le ore passate a discutere. Se Asha’man, Aes Sedai e Sapienti avessero tutti incanalato, sarebbe stato possibile. Ma aveva visto una battaglia combattuta con l’Unico Potere, uomini dilaniati in frammenti sanguinolenti in un batter d’occhio, la terra stessa che eruttava fuoco. Abila si sarebbe trasformata in un mattatoio ancor prima che avessero finito. Non avrebbe guardato mai più una cosa del genere, se poteva fare come voleva.
«Cosa credi che penserà il Profeta di questo?» chiese Elyas. Perrin dovette sgombrare la mente dai pozzi di Dumai e dall’immagine di Abila ridotta nello stesso stato, prima di poter capire di cosa stava parlando Elyas. Oh. Come stava per fare l’impossibile. «Non mi importa cosa ne penserà.» L’avrebbe considerato un problema, questo era certo. Con aria irritata, si accarezzò la barba. Doveva spuntarsela. O meglio, farsela spuntare. Se avesse preso le forbici, Faile gliele avrebbe tolte di mano e le avrebbe date a Lamgwin. Sembrava ancora impossibile che quel ceffo, con la sua faccia sfregiata e le nocche infossate, conoscesse il mestiere di servitore. Luce! Un servitore. La relazione con Faile e le sue strane usanze saldeane andava migliorando, ma più lui ci si abituava, più lei riusciva a far andare le cose come meglio credeva. Era quello che le donne facevano sempre, naturalmente, ma talvolta pensava di aver scambiato un tipo di uragano per un altro. Forse lui avrebbe potuto provare a usare quel tipo di urla imperiose che sembravano piacerle tanto. Un uomo avrebbe dovuto poter usare le forbici sulla propria barba, se voleva. Dubitava che l’avrebbe fatto, però. Urlarle contro era già abbastanza duro quando era lei a cominciare. Era sciocco pensarci adesso, comunque.
Esaminò gli altri che si dirigevano verso i cavalli allo stesso modo in cui avrebbe esaminato gli attrezzi che gli servivano per una dura sessione di lavoro. Temeva che Masema avrebbe reso questo viaggio peggiore di qualunque lavoro aveva mai intrapreso, e i suoi attrezzi erano pieni di crepe. Seonid e Masuri si fermarono accanto a lui, i cappucci dei loro mantelli ben tirati in avanti a nascondere i loro volti nell’ombra. Un affilato tremore orlava il flebile aroma dei loro profumi, paura sotto controllo. Se avesse fatto a modo suo, Masema le avrebbe uccise lì sul posto. Le guardie avrebbero potuto ancora farlo, se avessero riconosciuto dei volti da Aes Sedai. Erano in numero tale che doveva esserci qualcuno in grado di farlo. Masuri era più alta di quasi un palmo, ma Perrin poteva comunque guardarle tutte dall’alto in basso. Ignorando Elyas, le sorelle si lanciarono occhiate al riparo dei loro cappucci; poi Masuri parlò piano.
«Capite ora perché dev’essere ucciso? Quell’uomo è... un fanatico.» Be’, la Marrone era un tipo che misurava di rado le parole. Per fortuna, nessuna delle guardie era a distanza d’udito.
«Potresti scegliere un posto migliore per dire una cosa simile» la rimproverò. Non voleva sentire altre discussioni, né ora né poi. Edarra e Carelle si profilarono dietro l’Aes Sedai, gli scialli scuri già avvolti attorno alle teste. Le punte che pendevano sul petto e sulla schiena non sembravano offrire alcuna protezione dal freddo, d’altra parte era la neve ciò che infastidiva di più le Sapienti, o meglio la sola esistenza di una cosa del genere. I loro volti scuriti dal sole potevano essere scolpiti per tutto ciò che rivelavano, tuttavia il loro odore era uno spuntone d’acciaio. Gli occhi azzurri di Edarra, di solito così placidi da sembrare strani nelle sue fattezze giovanili, erano duri quanto quello spuntone. Ovviamente, la sua compostezza mascherava acciaio. Acciaio affilato.
«Questo non è il posto per parlare» disse in tono calmo all’Aes Sedai, infilando una ciocca di capelli color rosso fiammeggiante sotto il suo scialle. Pur essendo alta quanto molti uomini, era sempre calma. Per una Sapiente. Il che significava solo che non ti avrebbe strappato il naso con un morso senza prima avvertirti. «Prendete i vostri cavalli.»
Le donne più basse le fecero una piccola riverenza e si affrettarono sulle loro selle come se non fossero affatto Aes Sedai. Non lo erano, per le Sapienti. Perrin pensò che non ci si sarebbe mai abituato. Perfino se Masuri e Seonid sembravano averlo fatto.
Con un sospiro, si issò su Resistenza mentre le Sapienti seguivano le loro apprendiste Aes Sedai. Lo stallone saltellò per un po’ dopo essersi riposato, ma Perrin lo riportò sotto il suo controllo premendo le ginocchia e tenendo le redini con mano ferma. Le Aiel montarono con goffaggine perfino dopo tutto l’allenamento delle settimane passate, le loro gonne pesanti tirate su a scoprire le calze di lana sopra il ginocchio. Erano d’accordo con le due Sorelle su Masema, allo stesso modo delle altre Sapienti all’accampamento. Una bella patata bollente da portare a Cairhien senza scottarsi. Grady e Aram erano già in sella e lui non riusciva a distinguere i loro odori in mezzo agli altri. Non ce n’era bisogno. Aveva sempre pensato che Grady sembrasse un contadino malgrado la sua giubba nera e la spada argentea sul colletto, ma non ora. Statuario sulla sella, il tozzo Asha’man scrutava le guardie con l’occhio torvo di un uomo che stava decidendo dove vibrare il primo colpo. E il secondo, e il terzo, e quanti ne fossero serviti. Aram, col mantello da Calderaio verde marcio che sventolava mentre gli passava le redini, l’elsa della spada che gli spuntava da sopra la spalla... la faccia di Aram era tanto colma di eccitazione che Perrin quasi si sentì mancare. In Masema, Aram aveva incontrato un uomo che aveva votato il suo cuore, la sua vita e la sua anima al Drago Rinato. Agli occhi di Aram, il Drago Rinato veniva subito dopo Perrin e Faile.
‘Non hai fatto un favore al ragazzo’, aveva detto Elyas a Perrin. ‘Lo hai aiutato a lasciar andare quello in cui credeva, e ora tutto ciò in cui confida sei tu e quella spada. Non è abbastanza, non per un uomo.’ Elyas conosceva Aram da quando questi era ancora un Calderaio, ben prima che impugnasse la spada. Una patata che per qualcuno poteva essere avvelenata.
Le guardie potevano fissare stupite Perrin, ma nessuno si mosse per liberare un passaggio finché qualcuno non sbraitò da una finestra della casa. Allora si misero abbastanza da parte perché i cavalieri potessero andarsene in fila per uno. Raggiungere il Profeta non era semplice, senza il suo permesso. Senza il suo permesso, anche andarsene era impossibile. Appena lontano da Masema e le sue guardie, Perrin procedette di buon passo nonostante le strade affollate. Abila era stata fino a poco tempo prima una cittadina grande e fiorente, coi suoi mercati coperti e i tetti di ardesia sugli edifici di quattro piani. Era ancora vasta, ma cumuli di macerie contrassegnavano i posti dove case e locande erano state abbattute. Nella cittadina non rimaneva in piedi una locanda o una casa i cui occupanti avessero tardato a proclamare la gloria del lord Drago Rinato. La disapprovazione di Masema non andava mai per il sottile. Tra la folla erano pochi quelli che sembravano vivere in città: gente grigia che per la maggior parte sgattaiolava impaurita ai margini della strada, e poi non c’erano bambini, né cani. Probabilmente la fame era un problema, a quel punto. Dappertutto gruppi di uomini armati arrancavano attraverso la fanghiglia che arrivava fino alle caviglie e che solo qualche notte prima era stata neve; venti qui, cinquanta lì, gettavano a terra le persone troppo lente a scansarsi dalla loro strada e costringevano perfino i carri di buoi ad aggirarli. In vista ce n’erano sempre a centinaia. Ce ne dovevano essere migliaia. L’esercito di Masema era una marmaglia, ma finora i numeri avevano compensato altre mancanze. Grazie alla Luce, quell’uomo aveva acconsentito a portarne con sé solo cento. C’era voluta un’ora di discussioni, ma aveva acconsentito. Alla fine, Masema era stato convinto dal desiderio di raggiungere Rand in fretta, pur senza Viaggiare. Pochi dei suoi seguaci avevano cavalli, e quanti più fossero venuti a piedi, tanto più lenti sarebbero andati. Almeno così sarebbe arrivato all’accampamento di Perrin all’imbrunire.
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