Robert Jordan - Il cuore dell’inverno

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Il commiato dal Profeta

La Ruota del Tempo gira e le Epoche si succedono, lasciando ricordi che divengono leggenda. La leggenda sfuma nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza, un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa, il vento si alzò sopra l’Oceano Aryth. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine, al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Il vento soffiava verso est sopra le fredde onde grigioverdi dell’oceano, verso Tarabon, dove le navi che avevano già scaricato o attendevano il loro turno per entrare nel porto di Tanchico erano all’ancora per chilometri lungo la bassa linea costiera. Altre navi grandi e piccole riempivano il vasto porto, e dei barconi traghettavano la gente e il carico a riva, poiché non c’erano ormeggi liberi in nessuno dei moli della città. Gli abitanti di Tanchico avevano avuto paura quando la città era caduta in mano ai suoi nuovi padroni con le loro curiose usanze, le strane creature e le donne al guinzaglio che potevano incanalare, e si erano spaventati di nuovo quando era arrivata questa flotta dalle sconcertanti dimensioni, che aveva cominciato a riversare non solo soldati, ma mercanti dallo sguardo scaltro e artigiani coi loro attrezzi del mestiere, e perfino famiglie con carri pieni di utensili agricoli e piante sconosciute. C’erano un nuovo re e un nuovo panarca a emanare le leggi, però, e se anche entrambi dovevano fedeltà a una qualche imperatrice lontana e se i nobili Seanchan occupavano molti dei palazzi ed esigevano obbedienza maggiore di qualunque lord o lady di Tarabon, poco era cambiato nella vita di molte persone, se non per il meglio. Quelli di sangue seanchan avevano pochi contatti con la gente comune, e con le strane usanze si poteva convivere. L’anarchia che aveva lacerato il paese era solo un ricordo, e con essa la fame. I ribelli, i banditi e i fautori del Drago che avevano infestato il territorio erano stati uccisi o catturati e quelli che non avevano ceduto erano stati scacciati a nord verso la piana di Almoth, e il commercio era ripreso. Le orde di profughi affamati che avevano intasato le strade cittadine erano tornate nei loro villaggi e alle loro fattorie. E a Tanchico non rimanevano più nuovi arrivati di quanti la città potesse facilmente mantenere. Malgrado le nevicate, soldati e mercanti, artigiani e contadini si diffondevano verso l’interno a migliaia e decine di migliaia, ma il vento gelido sferzava una Tanchico serena e, dopo le severe difficoltà, per la maggior parte lieta per la propria condizione. Il vento soffiava da est per leghe, lanciandosi in raffiche e poi attenuandosi, dividendosi senza mai smorzarsi, verso est e poi virando a sud, lungo foreste e pianure avviluppate nell’inverno, dai rami secchi e dall’erba bruna, attraversando infine quello che una volta era stato il confine fra Tarabon e Amadicia. Ancora un confine, ma solo di nome, le postazioni doganali smantellate, le guardie sparite. Verso est e sud, attorno alle pendici meridionali delle Montagne di Nebbia, mulinando attorno ad Amador dalle alte mura. L’espugnata Amador. Lo stendardo in cima all’imponente Fortezza della Luce schioccava nel vento, con il suo falco dorato che sembrava davvero volare coi fulmini stretti fra gli artigli. Pochi nativi lasciavano le loro case tranne quando era necessario, e quei pochi si affrettavano lungo le strade gelate, stringendosi addosso i mantelli e tenendo gli occhi bassi. Non solo per stare attenti a dove mettevano i piedi sul selciato scivoloso, ma per evitare di guardare lo sporadico Seanchan che cavalcava una bestia come un gatto con scaglie di bronzo delle dimensioni di un cavallo, o Tarabonesi bardati di acciaio che sorvegliavano gruppi di quelli che una volta erano Figli della Luce, ora incatenati e usati come animali di fatica per trainare carri di immondizia fuori dalla città. Solo un mese e mezzo nella stretta dei Seanchan e la gente della capitale dell’Amadicia sentivano il vento penetrante come un flagello, e quelli che non imprecavano contro la loro sorte meditavano su quali peccati li avessero condotti a questo. Il vento ululò a est sopra una terra desolata dove c’erano tanti villaggi bruciati e fattorie in rovina quanti erano quelli che ospitavano persone. La neve ammantava palizzate bruciacchiate e granai abbandonati, e addolciva il panorama pur aggiungendo un ulteriore rischio di morte: il congelamento oltre alla fame. Spada, ascia e lancia erano già state qui, e rimanevano per uccidere ancora. Verso est, finché il vento gemette un funereo lamento sopra Abila, non fortificata. Nessuno stendardo sventolava sopra le torri di guardia della cittadina, poiché il Profeta del lord Drago era qui, e al Profeta non occorreva altro stendardo che il suo nome. Ad Abila, succedeva che la gente tremasse più per il nome del Profeta che per il vento. Anche altrove accadeva che udendo quel nome la gente rabbrividisse.

Uscendo a grandi passi dall’alta casa di un mercante dove viveva Masema, Perrin lasciò che il vento sferzasse il suo mantello bordato di pelliccia mentre si infilava i guanti. Il sole di mezzogiorno non forniva calore sufficiente, e l’aria mordeva fin nel profondo. Il suo volto restava calmo, ma il freddo lo irritava particolarmente. Gli costava un grosso sforzo tenere lontane le mani dall’ascia alla sua cintura. Masema — non avrebbe chiamato quell’uomo Profeta, non nella sua testa! — Masema, molto probabilmente, era uno sciocco, e di certo completamente folle. Uno sciocco influente, molto più di tanti re, e fanatico.

Le guardie di Masema riempivano le strade da un lato all’altro e si estendevano attorno agli angoli delle strade successive, individui ossuti vestiti di sete rubate, apprendisti imberbi con giacche strappate, mercanti un tempo corpulenti in quello che rimaneva di raffinati abiti di lana. Il loro respiro era una nebbiolina bianca e alcuni senza mantello tremavano, ma ogni uomo stringeva una lancia o una balestra carica. Nessuno tuttavia sembrava apertamente ostile. Sapevano che lui sosteneva di aver familiarità col Profeta e lo guardavano a bocca aperta come se si aspettassero che facesse un balzo e si mettesse a volare. O almeno a fare salti mortali. Ignorò l’odore del fumo che proveniva dai comignoli della città. Loro puzzavano tutti di sudore vecchio e corpi non lavati, di entusiasmo e paura. E di una strana febbre che non aveva riconosciuto prima, un riflesso della follia di Masema. Ostile o no, a un ordine di Masema avrebbero ucciso lui, o chiunque altro. Avrebbero massacrato intere nazioni solo ascoltando un comando di Masema. Al loro odore, percepì un sensazione di freddo più profonda di qualunque vento invernale. Era più lieto che mai di aver rifiutato che Faile andasse con lui.

Gli uomini che aveva lasciato coi cavalli stavano accanto agli animali a giocare a dadi, o fingevano di farlo, sfruttando uno spazio di selciato quasi del tutto liberato dalla neve in poltiglia. Per quanto lo riguardava, non si fidava di Masema, e nemmeno loro. Stavano prestando più attenzione alla casa e alle guardie che non alla loro partita. I tre Custodi scattarono in piedi non appena lui apparve, gli occhi puntati verso le sue compagne uscite subito dopo di lui. Sapevano quello che le loro Aes Sedai avevano provato lì dentro. Neald fu più lento perché si fermò per raccogliere i dadi e le monete. L’Asha’man era un damerino che camminava impettito, ammiccava alle donne e intanto si carezzava i baffi, ma ora restò sui calcagni, cauto come un gatto.

«Pensavo che ci saremmo dovuti far strada fuori da qui combattendo» mormorò Elyas all’orecchio di Perrin. I suoi occhi ambrati erano calmi, però. Era un uomo anziano alto e dinoccolato con un cappello a tesa larga, capelli ingrigiti che gli scendevano lungo la schiena e una lunga barba che gli cadeva sul petto. Alla cintura portava un lungo coltello, non una spada. Ma era stato un Custode. In un certo senso lo era ancora.

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