Robert Jordan - Il cuore dell’inverno

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Il cuore dell’inverno: краткое содержание, описание и аннотация

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«Posso costringermi a farlo» disse infine. «Dobbiamo avere un piano d’azione da presentare a Desandre e Lemai, se vogliamo convincerle.» Lei ne aveva già preparato uno, in parte, anche se non per mostrarlo a qualcuno. «Oh, sta bollendo l’acqua, Gabrelle.»

Sorridendo all’improvviso, la sciocca donna si alzò e si affrettò verso la stufa. Le Marroni erano più adatte a leggere i libri che non le persone, a pensarci bene. Prima che Logain, Taim, e gli altri fossero distrutti, avrebbero aiutato Toveine Gazai a destituire Elaida.

La grande città di Cairhien era un enorme agglomerato all’interno di massicce mura che si accalcava sul fiume Alguenya. Il cielo era limpido e sereno, ma soffiava un vento freddo e il sole splendeva sui tetti ricoperti di neve, scintillando sui ghiaccioli che non davano segno di sciogliersi. L’Alguenya non era gelato, ma piccole lastre di ghiaccio frastagliate scendevano roteando nelle correnti, picchiando di tanto in tanto contro le carene delle navi che aspettavano il proprio turno ai moli. Il commercio era rallentato per l’inverno e le guerre, e per il Drago Rinato, ma non si fermava mai del tutto, non finché le nazioni non fossero morte. Malgrado il freddo, carri, calessi e persone fluivano lungo le strade che tagliavano le colline terrazzate della metropoli. La Città, veniva chiamata qui. Di fronte al Palazzo del Sole, squadrato e turrito, una folla era ammassata attorno alla lunga rampa d’accesso e guardava verso l’alto, con mercanti avvolti in raffinati abiti di lana e nobili vestiti di velluto pigiati spalla a spalla con braccianti dalle facce sudice e profughi ancora più sporchi. A nessuno importava chi aveva accanto, e perfino i tagliaborse dimenticavano di fare il loro mestiere. Uomini e donne si allontanavano, scuotendo spesso le teste, ma altri li rimpiazzavano, talvolta tenendo un bimbo sulle spalle perché avesse una visuale migliore dell’ala in rovina del palazzo, dove gli operai stavano ripulendo le macerie del terzo piano. Per il resto di Cairhien, i martelli degli artigiani e lo scricchiolio delle assi riempivano l’aria, insieme alle grida dei negozianti, le lamentele degli acquirenti, i mormorii dei mercanti. La folla di fronte al Palazzo del Sole era in silenzio. A un miglio dal palazzo, Rand stava a una finestra dell’edificio dal nome pomposo di Accademia di Cairhien, scrutando attraverso i vetri incrostati di ghiaccio il sottostante cortile delle stalle pavimentato di pietra. C’erano state scuole chiamate Accademie al tempo di Artur Hawkwing e anche prima, centri del sapere colmi di studiosi da ogni angolo del mondo conosciuto. Quel nome ricercato non faceva differenza: avrebbero potuto chiamarlo il Granaio, se questo fosse servito allo scopo. Preoccupazioni più importanti riempivano i suoi pensieri. Aveva commesso un errore a tornare a Cairhien così presto? Ma era stato costretto a fuggire troppo in fretta, perciò negli ambienti giusti avrebbero saputo che in realtà era scappato. Troppo in fretta per preparare tutto. C’erano domande che doveva porre e compiti che non poteva rimandare. E Min voleva altri libri di mastro Fel. La poteva udire mugugnare fra sé mentre frugava fra gli scaffali dove erano stati conservati dopo la morte di Fel. Col dono di libri e manoscritti che ancora non possedeva, la biblioteca dell’Accademia stava rapidamente superando le stanze che potevano esservi dedicate nell’ex palazzo di lord Barthanes. Alanna risiedeva nei recessi della sua mente, sembrava di malumore; di certo lei sapeva che si trovava nella Città. Da così vicino, avrebbe potuto camminare dritta nella sua direzione, ma se lei ci avesse provato lui lo avrebbe saputo. Per fortuna, Lews Therin per il momento era silenzioso. Di recente, quell’uomo sembrava più folle che mai. Ripulì uno dei pannelli della finestra sfregandolo con la manica della giubba. Di robusta lana grigio scuro, adatta per un uomo con pochi soldi e poche arie, era un indumento che nessuno si sarebbe aspettato di vedere addosso al Drago Rinato. La testa di drago con la criniera dorata sul dorso della sua mano risplendeva di un bagliore metallico; non mostrava alcun pericolo qui. Il suo stivale toccò il fagotto di cuoio poggiato sotto la finestra mentre si sporgeva in avanti per guardare fuori. Nel cortile delle stalle, la neve era stata spazzata via e un grosso carro era circondato da secchi come funghi in una radura. Mezza dozzina di uomini con pesanti giubbe, sciarpe e cappelli sembrava impegnata con lo strano carico, congegni meccanici ammassati attorno a un grosso cilindro metallico che occupava più di metà della base del carro. Cosa ancora più strana, mancavano le stanghe del carro. Uno degli uomini stava spostando della legna da ardere già tagliata da un’ampia carriola a una scatola di metallo assicurata sotto un’estremità del grosso cilindro. Lo sportello aperto della scatola ardeva di un bagliore rosso fuoco all’interno, e da un comignolo alto e stretto si levava del fumo. Un altro tizio, barbuto, calvo e senza cappello, saltellava attorno al carro, gesticolando e sbraitando ordini che non sembravano tuttavia avere effetto sugli altri, che continuavano a muoversi lentamente. Il loro fiato si condensava in pallidi pennacchi bianchi. All’interno faceva quasi caldo; l’Accademia aveva grosse fornaci nelle cantine e un esteso sistema di ventilazione. Le ferite al fianco, quelle parzialmente curate e che non sarebbero mai guarite, erano roventi. Quello che non riusciva a decifrare erano le imprecazioni di Min — era sicuro che fossero imprecazioni — ma il suo tono era sufficiente a dire che non se ne sarebbero andati, a meno che non l’avessero trascinata via. Comunque c’erano uno o due oggetti di cui le voleva chiedere. «Cosa dice la gente riguardo al palazzo?»

«Quello che puoi aspettarti» replicò lord Dobraine dietro di lui con pacata pazienza, allo stesso modo in cui aveva risposto a tutte le altre domande. Anche quando ammetteva di non sapere qualcosa, il suo tono non mutava.

«Alcuni dei Reietti ti hanno attaccato, oppure sono state le Aes Sedai. Quelli che pensano che tu abbia giurato fedeltà all’Amyrlin Seat propendono per i Reietti. Comunque sia, c’è un accanito dibattito: si chiedono se ti abbiano ucciso, rapito o se tu sia riuscito a fuggire. Molti credono che tu sia vivo, dovunque tu sia, o così dicono. Alcuni, un bel po’, temo, pensano...» La sua voce si smorzò fino a morire.

«...che io sia impazzito» finì Rand per lui con lo stesso tono pacato. Non era una questione di cui preoccuparsi, o per cui arrabbiarsi. «Che sia stato io a distruggere parte del palazzo?» Non voleva parlare dei morti. Meno di altre volte, di altri posti, ma abbastanza, e alcuni dei loro nomi apparivano ogni volta che chiudeva gli occhi. Uno degli uomini di sotto scese dal carro, ma il tizio calvo lo afferrò per il braccio e lo trascinò di nuovo sopra, perché gli mostrasse cosa aveva fatto. Un uomo dall’altro lato balzò sul selciato in modo incauto, slittando, e l’uomo senza cappello abbandonò il primo per correre attorno al carro e far risalire quell’altro insieme a lui. Cosa stavano facendo, per la Luce? Rand lanciò un’occhiata girandosi appena.

«Non hanno del tutto torto.»

Dobraine Taborwin, un uomo basso con la parte anteriore della testa rasata e cerimoniosamente incipriata e il resto dei capelli quasi tutti grigi, gli restituì lo sguardo con scuri occhi impassibili. Non un bell’uomo, ma affidabile. Strisce bianche e blu scendevano dal collo fin quasi ai piedi sul davanti della sua giubba di velluto scuro. Il suo anello era un rubino intagliato con un sigillo, sul colletto ne portava un altro non molto più grosso, tuttavia vistoso per un Cairhienese. Era il Sommo Signore della sua casata, che aveva alle spalle più battaglie di tanti altri, e non c’erano molte cose che lo spaventavano. Lo aveva dimostrato ai pozzi di Dumai. D’altra parte, la donna tarchiata e ingrigita che attendeva con pazienza il proprio turno alle sue spalle appariva altrettanto impavida. In contrasto con la nobile eleganza di Dobraine, le pratiche vesti di lana marrone di Idrien Tarsin erano semplici come quelle di un bottegaio, tuttavia la sua autorità e la sua dignità provenivano da altro. Idrien era la direttrice dell’Accademia, titolo che aveva attribuito a sé stessa dal momento che molti degli studiosi e dei meccanici si chiamavano maestro di questo o maestra di quello. Dirigeva la scuola con mano ferma e credeva in cose pragmatiche, nuovi metodi di lastricare strade o preparare tinture, miglioramenti a fonderie e fabbriche. Credeva anche nel Drago Rinato. Che questo fosse pragmatico o meno, era concreto, e per lei andava bene così.

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