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Ivan Efremov: Il cuore del serpente

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Ivan Efremov Il cuore del serpente

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Il Cuore del Serpente: tout court, della letteratura contemporanea sovietica New Worlds Science Fiction, Science Fantasy Science Fiction Adventures Il Cuore del Serpente Mi auguro che questo romanzo possa conquistare, dopo l’approvazione di Asimov, di Bergier e di Carnell, anche la vostra approvazione; è infatti un’opera molto notevole per la sua profonda umanità, per la sua esattezza scientifica, per lo slancio sincero con cui l’autore auspica l’avvento di una società in cui, superati i contrasti contingenti, gli uomini si avviino uniti alla conquista pacifica dell’universo. L’autore, Ivan Efremov, un ex-marinaio che è riuscito a laurearsi in biologia ed in ingegneria mineraria ed a diventare uno scienziato famoso (ha guidato parecchie spedizioni scientifiche in Asia ed insegna paleontologia in un’Università sovietica), è una figura estremamente simpatica e degna di ammirazione; le sue opere si distinguono per la serietà, per l’impegno, per l’amore della conoscenza e della pace. Penso che questo sarà un incontro veramente interessante per il pubblico specializzato.

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Ivan Efremov

Il cuore del serpente

Il cuore del serpente (Сердце Змеи, 1959)

Traduzione di M. Gavioli.

Stampato in Italia. Printed In Italy.

Stabilimento tipografico editoriale La Tribuna. Piacenza.

Tutti i diritti riservati.

Capitolo I

La musica irruppe attraverso le nebbie dell’oblio.

« Destatevi, non cedete alla sinistra entropia… »

Le parole familiari del canto stimolarono la memoria, dando l’avvio ad una catena interminabile di associazioni di idee.

La vita ritornò nella grande astronave; vibrava ancora, ma i meccanismi automatici continuavano la loro opera. I vortici di energia che avevano avviluppato le tre cupole di metallo verde a forma d’alveare, nella sala comando, si erano spenti. In pochi secondi, le cupole si sollevarono e scomparvero nelle nicchie del soffitto, in un labirinto di condutture, di fili e di travature, rivelando tre uomini riversi negli ampi sedili imbottiti.

Due uomini rimasero immoti, ma il terzo fremette, aprì gli occhi e ributtò all’indietro una ciocca di capelli neri che gli scendeva sulla fronte. Si sollevò dalle profondità morbide del perfetto isolamento e si piegò in avanti, per leggere i dati sui quadranti del pannello dei comandi, che si stendeva a mezzo metro di distanza dai tre sedili.

«Eccoci qui di nuovo,» disse una voce robusta, vicino a lui. «Sei stato ancora una volta il primo a svegliarti, Kari. Hai proprio il fisico ideale per un astronauta.»

Kari Ram, ingegnere elettronico e astronavigatore della nave spaziale Tellur, si girò per incontrare lo sguardo ancora annebbiato del capitano, Moot Ang.

Il capitano si sollevò, con uno sforzo, emise un respiro di sollievo, e rivolse la sua attenzione al pannello.

«Ventiquattro parsec… Siamo passati accanto ad una stella. Gli strumenti nuovi sono sempre inesatti… O forse dovrei dire che non abbiamo ancora imparato a servircene nel migliore dei modi. Puoi spegnere la musica, adesso. Tey si è svegliato.»

Nel silenzio che seguì, Kari Ram poté udire distintamente il respiro ineguale dell’uomo che stava riprendendo conoscenza.

La sala comando era una stanza piuttosto grande, di forma circolare, profondamente nascosta, per maggiore sicurezza, nelle viscere dell’astronave. Sopra i pannelli degli strumenti e le porte sigillate ermeticamente, uno schermo azzurrino correva tutto intorno alla parete. Davanti, lungo l’asse longitudinale della nave, c’era un varco, nello schermo, per il disco localizzatore, che aveva un diametro pari al doppio dell’altezza di un uomo. Il disco, trasparente come cristallo, sembrava fondersi nello spazio cosmico, scintillando come un diamante nero nella luce fioca che emanava dai quadranti.

Moot Ang fece un movimento quasi impercettibile, e tutti e tre alzarono le braccia per schermarsi gli occhi. Un gigantesco sole color arancio era esploso improvvisamente sullo schermo. Anche se la sua intensità era ridotta da filtri molto potenti, la luce era assolutamente insopportabile.

Moot Ang scosse il capo.

«Stiamo quasi passando attraverso la corona solare. Non calcolerò mai più “rotte esatte", in precedenza! E’ molto più sicuro passare al largo.»

«La cosa peggiore, quando si ha a che fare con le astronavi a tonneggio, è che tu calcoli la rotta, e loro partono alla cieca come proiettili sparati nella notte.» La voce di Tey Eron si levò dalle profondità del sedile. Tey era il secondo ufficiale e l’astrofisico della spedizione. «Per giunta, noi siamo ciechi e impotenti nel centro dei campi vorticali di protezione. Non mi piace questo tipo di volo spaziale, anche se è il più rapido che l’uomo sia riuscito ad inventare.»

«Ventiquattro parsec, e ci è sembrato un momento, » disse Moot Ang.

«Un momento di sonno simile alla morte,» mormorò Tey Eron. «In quanto alla Terra…»

«Meglio non pensare alla Terra,» disse Kari Ram, alzandosi. «Né al fatto che sono passati settantotto anni dalla nostra partenza; e che i nostri amici, i nostri parenti, a casa, sono morti di vecchiaia. Meglio non pensarci. Quali cambiamenti troveremo, quando ritorneremo?»

«Sarebbe la stessa storia anche se usassimo un altro tipo di astronave,» fece il capitano, conciliante. «La sola differenza è che la Tellur si muove più velocemente. E, anche se ci spingeremo nello spazio più di chiunque altro prima di noi, troveremo pochi cambiamenti al nostro ritorno. »

Tey Eron si avvicinò al calcolatore.

«E’ tutto normale,» disse, dopo qualche minuto. «Quella stella è Cor Serpentis, o meglio Unuk el-Hay, come la chiamavano gli antichi astronomi arabi: il Cuore del Serpente.»

«E dov’è la sua compagna?» chiese Kari Ram.

«Nascosta dietro il primario. Guarda qui: spettro K0. Rispetto a noi è in eclisse.»

«Liberate tutti i ricevitori!» ordinò il capitano.

L’infinita oscurità del cosmo avvolse ogni cosa: una oscurità senza fondo che sembrava ancora più nera in confronto alla luce accecante arancio-dorata di Cor Serpentis, che splendeva a sinistra, verso la poppa. La Via Lattea e le altre stelle impallidirono in quel bagliore. Soltanto una stella bianca, più in basso, mantenne il suo splendore.

«Ci avviciniamo all’Epsilon del Serpente,» disse Kari Ram. La sua voce era più alta del normale. Evidentemente, si aspettava un elogio dal capitano. Ma Moot Ang non disse nulla. I suoi occhi erano puntati verso la luce bianca della stella lontana.

«Ecco, fin dove giunse la mia vecchia nave, la Sol, » disse, finalmente, rendendosi conto del silenzio d’attesa che era caduto sulla sala comando. «Per esplorare nuovi pianeti…»

«E quella è Alphecca della Corona Boreale!»

«Sì, Ram. O, per usare il suo nome europeo, Gemma. Ma adesso dobbiamo metterci al lavoro.»

«Debbo svegliare gli altri?» chiese Tey Eron.

«No. Faremo qualche altro balzo, se troveremo via libera,» disse Moot Ang. «Accendi i telescopi ottici ed i radiotelescopi. Controlla il funzionamento delle macchine-memoria. Tey, puoi attivare i motori nucleari. Useremo quelli. E accelera.»

«Sei settimi della velocità della luce?»

Il capitano annuì, e Tey si affrettò a manovrare gli interruttori. Neppure un fremito passò nell’astronave; ma un lampo accecante accese tutti gli schermi, cancellando completamente tutte le stelle della Via Lattea, compreso il vecchio Sole della Terra.

«Dovremo attendere parecchie ore, prima che gli strumenti completino le osservazioni e le controllino,» disse Moot Ang. «Adesso mangeremo qualcosa e faremo bene a dormire un po’. Continua tu, Kari. Poi ti rileverò io.»

Kari Ram si lasciò cadere sul sedile posto di fronte al centro del pannello dei comandi. Dopo che gli altri due uomini si furono allontanati, spense i ricevitori e le fiamme dei motori a razzo scomparvero dalla sua vista.

Il bagliore riflesso del tremendo Cor Serpentis danzava sulle superfici lucenti degli strumenti di bordo. Il disco del localizzatore di prua rimaneva un pozzo oscuro, senza fondo. E questo era confortante: significava che i calcoli per i quali erano stati necessari sei anni di lavoro da parte delle migliori menti e delle migliori calcolatrici terrestri erano esatti.

La Tellur, la prima astronave a tonneggio spaziale costruita sulla Terra, si stava muovendo lungo un grande corridoio nello spazio, vuoto di ammassi stellari e di nubi di polvere cosmica. Quel tipo di astronave, capace di muoversi in uno spazio-zero, era stata progettata per spingersi più lontano di quanto si fossero mai spinte le astronavi atomiche che non potevano superare i cinque sesti o i sei settimi della velocità della luce. Lavorando sul principio della compressione del tempo, le astronavi a tonneggio erano migliaia di volte più rapide. C’era lo svantaggio che durante i balzi erano prive di controllo umano; infatti gli astronauti potevano sopportare l’attimo del balzo nello spazio soltanto in istato di incoscienza, protetti da potenti campi di energia vorticale. La Tellur si spostava a balzi, e prima di ogni balzo era necessario accertarsi che la via fosse sgombra.

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