«Che magnifica mattinata», mormorò Johanson.
Tina si avvicinò a una scrivania. Prese due sedie di resopal e aprì un laptop dall'ampio schermo. Mentre il computer caricava il programma, la donna tamburellava sul piano del tavolo. Infine comparvero alcune fotografie che lui conosceva. Mostravano una macchia chiara, lattiginosa, che ai bordi si perdeva nel nero.
«Sono le immagini riprese da Victor. Quella cosa sulla scarpata», disse Johanson.
«Quella cosa che non mi dà pace», confermò Tina.
«Avete scoperto cos'è?»
«No, però sappiamo che cosa non è. Non è una medusa, non è un banco di pesci. Abbiamo analizzato la sequenza con migliaia di filtri. Questa è la migliore che siamo riusciti a ottenere.» Ingrandì la prima fotografia. «Quando quell'essere è finito davanti all'obiettivo, era colpito dalla luce violenta del riflettore. Ne abbiamo visto una parte, ma naturalmente in maniera molto diversa da come l'avremmo vista senza luce artificiale.»
«Senza luce, a quella profondità, non avreste visto nulla», osservò lui.
«Infatti!»
«A meno che non si sia di fronte a un caso di bioluminescenza…» Si bloccò.
Tina gli scoccò un'occhiata soddisfatta. Le sue dita danzarono sulla tastiera e l'immagine cambiò di nuovo. Stavolta apparve un dettaglio del bordo superiore destro. Proprio dove la chiazza illuminata si perdeva nel buio s'intravedeva qualcosa. Una luminosità di un blu intenso attraversata da linee più chiare. «Se s'illumina un oggetto luminoso, non si vede più nulla della sua luminosità. E i riflettori di Victor abbagliano tutto. Tranne ai margini, dove la luce si disperde. Lì si riesce a riconoscere qualcosa. A mio giudizio è la prova che abbiamo a che fare con un essere luminoso. E anche molto grande», disse lei.
La bioluminescenza era una caratteristica di molti abitanti degli abissi, ottenuta grazie a batteri con cui essi vivevano in simbiosi. C'erano organismi luminosi anche sulla superficie marina, come alcune alghe e piccole seppie. Però il vero mare di luce cominciava là dove spariva la luce del sole. Nel buio totale degli abissi marini.
Johanson fissò lo schermo. Il blu si riusciva più a intuirlo che a vederlo. Un occhio non abituato non l'avrebbe notato. Ma la telecamera del robot aveva una definizione molto elevata. Probabilmente Tina aveva ragione. Si fregò la barba. «Secondo te, quanto è grande?»
«Difficile dirlo. A giudicare dalla rapidità con cui è sparito, doveva essere al limite del fascio luminoso. Ad alcuni metri di distanza. Tuttavia la sua superficie ha occupato quasi tutto l'obiettivo. Che ne deduci?»
«La parte che abbiamo visto dovrebbe essere grande dai dieci ai dodici metri quadrati.»
«Quella che abbiamo visto !» Tina fece una pausa. «La luminosità ai margini induce a pensare che probabilmente quella che abbiamo visto non era la parte più grande.»
A Johanson venne un'idea. «Potrebbe essere una massa di pLancton. Microrganismi. Ce ne sono di luminosi…»
«E come spieghi il disegno?» domandò Tina.
«Le linee chiare? Un caso. Siamo noi a credere che sia un disegno. Abbiamo pensato che anche i canali di Marte formassero un disegno.»
«Io non credo che sia plancton», disse lei.
«Quello che vediamo non è così chiaro.»
«E invece sì. Guarda un'altra volta.»
Tina aprì le immagini successive. L'oggetto si ritirava sempre più nell'oscurità. In effetti, si era visto per poco più di un secondo. Il secondo e il terzo ingrandimento mostravano ancora la macchia debolmente luminescente. Ma, nel corso della sequenza, sembrava che la posizione delle linee fosse cambiata. Nella quarta, le linee erano sparite del tutto.
«Ha spento la luce», mormorò lui, sbalordito. Poi rifletté. Alcune specie di polpi comunicavano attraverso la bioluminescenza. Non era così insolito che un animale, in caso di pericolo, spegnesse, per così dire, l'interruttore e sparisse nell'oscurità. Ma quell'animale era grandissimo. Molto più grande di qualsiasi specie conosciuta di piovra. L'inevitabile conclusione non gli piaceva affatto. Non si trattava di un essere originario del margine continentale norvegese. «L' Architeuthis », disse.
«Il calamaro gigante», confermò Tina. «È la prima cosa che viene in mente. Ma la sua presenza non è mai stata segnalata in queste acque.»
«Sarebbe la prima volta che vediamo quell'essere vivo.»
Non era del tutto vero. Da molto tempo circolavano storie incredibili sugli Architeuthis. Come prova della loro esistenza, erano stati addotti alcuni cadaveri, giunti a riva. Una prova non decisiva, perché la carne del calamaro era come gomma. Più la si tirava, più si allungava, soprattutto nella fase di decomposizione. Pochi anni prima, a ovest della Nuova Zelanda, nelle reti dei ricercatori erano finiti alcuni giovani animali, il cui profilo genetico non lasciava dubbi: nel giro di diciotto mesi, si sarebbero trasformati in calamari giganti, lunghi fino a venti metri e pesanti fino a dieci quintali. Però nessun essere umano aveva mai visto vivo uno di quegli animali. L' Architeuthis viveva negli abissi ed era impossibile dire se fosse luminoso. Johanson corrugò la fronte. Poi scosse la testa. «No.»
«Che cosa, no?»
«Ci sono troppi elementi contrari. Questa non è la zona dei calamari giganti.»
«Certo, ma…» Tina agitò le mani. «In realtà non sappiamo dove vivono. Non sappiamo nulla.»
«Non vivono in questa zona», insistette lui.
«Neppure i vermi dovrebbero essere qui», precisò Tina.
Vi fu un momento di silenzio.
«E se anche fosse?» riprese infine Johanson. «Gli Architeuthis non sono aggressivi. Di che vi preoccupate? Fino a oggi non c'è stato un solo uomo aggredito da un calamaro gigante.»
«I testimoni non la pensano così.»
«Oddio, Tina! È possibile che abbiano seguito qualche barca. Ma. non è il caso di mettersi a discutere sulla minaccia rappresentata dai calamari giganti per l'estrazione petrolifera. Devi ammettere che è ridicolo.»
Tina osservò scettica l'ingrandimento della fotografia. Poi chiuse il file. «Okay, hai qualcosa per me? Qualche risultato?»
Johanson tirò fuori la busta e l'aprì. Dentro c'era una spessa mazzetta di fogli, fittamente stampati.
«Santo cielo», si lasciò sfuggire lei.
«Aspetta, dovrebbe esserci un riassunto. Ah, eccolo!»
«Fammi vedere.»
«Un attimo.» Lui scorse il rapporto.
Tina si alzò e andò alla finestra. Poi si mise a camminare avanti e indietro. «Su, dimmi qualcosa», sbuffò.
fohanson aggrottò la fronte e sfogliò il plico. «Hmm, interessante.»
«Sputa il rospo», insistette lei.
«Confermano che si tratta di policheti. E, benché loro non siano propriamente tassonomi, scrivono di essere arrivati alla conclusione che il verme presenta sorprendenti somiglianze con la Hesiocaeca methanicola. Data questa circostanza, si meravigliano per la mascella così pronunciata e poi scrivono… Qui si fa più particolareggiato… Ah, ecco. Hanno esaminato le mandibole. Molto potenti e indubbiamente pensate per trivellare e scavare.»
«Fin lì c'eravamo arrivati anche noi», esclamò Tina, impaziente.
«Aspetta. Hanno fatto anche altri esami. Analisi della composizione degli isotopi stabili e la spettrometria di massa. Oh! Il nostro verme è leggero, meno novanta per mille.»
«Potresti esprimerti in maniera comprensibile?» chiese Tina.
«È proprio metanotrofo. Vive in simbiosi coi batteri che decompongono il metano. Come posso spiegartelo? Allora, gli isotopi… Sai cosa sono gli isotopi?»
«Sono atomi di un elemento chimico con lo stesso numero atomico, ma un diverso numero di massa.»
«Molto bene. Ma andiamo oltre. Per esempio, il carbonio esiste con diversi pesi. C'è il carbonio 12 e il carbonio 13. Se mangi qualcosa in cui c'è prevalenza di un carbonio più leggero, quindi un isotopo più leggero, anche tu sarai più leggera. Chiaro?»
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