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Robert Silverberg: Il sogno del tecnarca

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Robert Silverberg Il sogno del tecnarca

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Il Tecnarca McKenzie ha fretta, perché vuol gli uomini sparsi per tutto l’Universo durante il periodo del suo governo. Per questo lo irritano tanto le notizie portate dall’equipaggio dell’astronave che ha compiuto felicemente un viaggio di prova sperimentando la nuova propulsione. Gli uomini non sono i soli esseri intelligenti. Gli astronauti hanno notato tracce di attività su uno dei pianeti scelti da Tecnarca per la colonizzazione terrestre. Un’altra civiltà vi sta installando una sua colonia. Il Tecnarca McKenzie ha fretta di definire la questione, perciò bisogna mettersi in contatto con gli altri, far loro capire chi sono i terrestri, ed accordarsi perché le sfere di influenza delle due civiltà non vengano mai a conflitto, e si dividano amichevolmente l’Universo. E l’astronave appena tornata dal difficile viaggio deve ripartire subito, con lo stesso equipaggio, che è stanco ma è l’unico di cui il Tecnarca si fidi. Con l’equipaggio viaggeranno i cinque uomini migliori della Terra, ognuno eccellente nel proprio campo, per negoziare con l’altra razza e concludere secondo i desideri del Tecnarca il quale, avendo già rinunciato a una parte del suo sogno, non intende rinunciare anche alla metà dell’universo che gli è rimasta. Ma le cose non vanno come stabilito, e il Tecnarca dovrà mettersi a segnare il passo insieme a tutta la razza umana, perché la spedizione terrestre fa una scoperta che costringerà McKenzie a rinunciare ai suoi sogni.

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McKenzie aveva un nodo alla gola, un altro alla bocca dello stomaco. Sentirsi così teso e nervoso lo irritava, ma nessun ordine dato con voce imperiosa poteva allentare quella tensione.

Tra venti minuti… diciannove… diciotto… la VUL-XV. sarebbe arrivata.

Guardò di nuovo le stelle. Erano centinaia, migliaia, sparse attraverso la volta celeste. Ogni stella, entro un raggio di quattrocento anni-luce, che avesse un pianeta abitabile, e la maggior parte di esse l’aveva, era stata raggiunta dall’umanità. Da secoli, ormai, astronavi che viaggiavano a nove decimi della velocità della luce si erano lanciate verso le stelle, trattenute dalla velocità che le limitava ma pur sempre in grado di divorare gli anni-luce, avendo a disposizione il tempo necessario. C’erano voluti sei anni per compiere il primo tragitto di sola andata fino al sistema del Centauro. Il ritorno, via transmat, era stato questione di istanti.

Ma per potervi installare l’impianto transmat, bisognava prima raggiungere le diverse stelle, e qui stava l’intoppo. Costantemente teso alla conquista degli spazi, l’impero dell’Uomo, sia pure per piccole tappe, si era allargato, limitato però, e sempre, dagli inesorabili limiti matematici dell’Universo conosciuto. Una volta che un pianeta veniva raggiunto e collegato alla rete interstellare transmat, finiva per trovarsi vicinissimo alla Terra proprio come ogni altra stazione di quella rete. Il transmat offriva connessioni infinite, una volta creato il collegamento. Ma fino ad allora…

Per questo il progresso era stato lento. Dopo più di quattrocento anni di viaggi interstellari, il genere umano aveva colonizzato ogni pianeta abitabile entro un raggio di quattrocento anni-luce. Era più che logico partire dall’assunto che lo schema primario fosse valido anche per il resto della galassia: e cioè, che attorno ad ogni sole della serie principale ci fosse almeno un pianeta del tipo Terra, abitabile ma non abitato. Nessun’altra forma di vita intelligente era mai stata scoperta. L’Universo apparteneva all’uomo, ma sarebbero occorsi millenni prima che l’Uomo potesse entrarne in possesso.

Questo fatto aveva infastidito McKenzie durante gli anni del suo addestramento per l’Arconato; e quando la morte del Tecnarca Bengstrom portò McKenzie alla carica, il nuovo Tecnarca aveva messo sotto pressione tutte le risorse terrestri destinandole senza eccezione al compito di escogitare un mezzo qualsiasi per spezzare le catene della relatività.

I fallimenti c’erano stati, e a quale prezzo! Astronavi sperimentali erano state lanciate e fatte seguire da altre astronavi con uomini a bordo che le osservavano per mezzo di precisissimi rivelatori. Ma le astronavi d’osservazione erano esplose, o non avevano più fatto ritorno. Eppure, si trovavano sempre i volontari per il prossimo tentativo, e per quello seguente, e per quello dopo ancora…

Questo, fino all’avvento della propulsione Daviot-Leeson, col suo generatore incredibilmente sottile che apriva un «buco» nello spazio-tempo grazie a impulsi termonucleari regolabili. E allora, all’improvviso, era parso che il sentiero fosse sgombro. Lo spazio nella zona d’influenza di una stella, avevano pensato Daviot e Leeson, è deformato e alterato dalla massa e dal calore della stella stessa. Se fosse stato possibile riprodurre lo stesso effetto in miniatura, se fosse stato possibile aprire nel tessuto dello spazio-tempo una fessura larga abbastanza perché un’astronave potesse insinuarvisi, viaggiare lungo una rotta stabilita in precedenza e fare ritorno, allora il dominio dell’uomo non avrebbe avuto più limiti.

Erano passati sei anni dai primi modelli-pilota alla sicurezza che aveva consentito a McKenzie di spedire un’astronave con uomini a bordo verso le stelle. E adesso la nave stellare era di ritorno. Tra soli tredici minuti, dodici, undici… Quei minuti ticchettavano via tra la tensione generale. Nessuno parlava. Jesperson, che aveva infilato la cuffia, si teneva in contatto con la stazione principale d’avvistamento, situata all’estremità più lontana dello spazioporto.

Cinque minuti prima del momento dell’atterraggio, Jesperson parlò: «L’hanno avvistata nitidamente. Sarà qui in perfetto orario.»

McKenzie si inumidì le labbra, voltando le spalle perché gli altri non potessero scorgere nessun segno di tensione sul volto del Tecnarca. «Quattro minuti. Tre. Due…»

Jesperson conteggiò i secondi alla rovescia… Ed ecco la VUL-XV. Descrisse una parabola discendente in una scia di fiamme dorate, e venne a fermarsi proprio di fronte a loro, abbassando gli stabilizzatori e gli argani d’atterraggio. Gli addetti alla decontaminazione erano già al lavoro sul campo. Si aprì il portello.

Alcuni uomini ne uscirono.

McKenzie li contò. Uno, due, tre, quattro, cinque. Nessuna perdita, dunque. Da quella distanza, circa ottocento metri, non riusciva a distinguere le facce, comunque, cinque uomini erano partiti verso le stelle e cinque ne erano ritornati. I loro nomi cantilenavano una specie di filastrocca nella mente del Tecnarca. Laurance, Peterszoon, Nakamura, Clive, Hernandez. Hernandez, Clive, Nakamura, Peterszoon, Laurance. Peterszoon, Nakamura…

Ora avanzavano attraverso il campo, si dirigevano verso la cupola. Quando furono più vicini, McKenzie notò che tre di loro si erano lasciati crescere la barba. Ripensò al giorno in cui si erano trovati tutti in quello stesso lo cale, per gli addii ufficiali che McKenzie, in cuor suo, aveva creduto definitivi. Invece, erano tornati. Tutti.

Il Tecnarca. si rivolse a Jesperson: «Ordinate che l’equipaggio si presenti subito qui, a rapporto.»

«Ricevuto, Eccellenza» disse Jesperson e parlottò in un microfono. Qualche attimo dopo, la porta si dissolse aprendosi, e l’equipaggio della VUL-XV fece il suo ingresso: Laurance, Peterszoon, Nakamura, Clive, Hernandez.

Apparivano disfatti, sudati, con le guance scavate. Le barbe appartenevano a Laurance, Peterszoon e Clive. La faccia di Nakamura era rasata di fresco, ma i capelli neri gli ricadevano umidicci sulla fronte e le orecchie. Solo Hernandez conservava un aspetto inappuntabile. Tutti e cinque, però, avevano la stessa espressione stravolta, mortalmente affaticata.

McKenzie si avviò a passi decisi verso di loro, la sua grossa mano afferrò quella inerte e madida di Laurance. «Benvenuto, Comandante. A tutti voi: bentornati.»

«Ai vostri ordini, Eccellenza. È… bello essere di nuovo a casa.»

«Il viaggio è riuscito?»

Un’espressione dubbiosa trapelò dagli occhi arrossati di Laurance. «Riuscito? Be’, direi di sì. Il nuovo tipo di propulsione ha funzionato meravigliosamente. Abbiamo coperto novemilaottocento anni-luce in un batter d’occhio. Però…»

Daviot mandò un’esclamazione di giubilo. Leeson diede una manata sulla schiena di Jesperson. McKenzie chiese brusco: «Però cosa?»

Laurance si guardò attorno. «È… una faccenda delicata, Tecnarca McKenzie. Forse faremmo meglio a parlarne più tardi…»

«Parlate pure in presenza di questi signori» lo autorizzò McKenzie.

«Benissimo, Eccellenza. Abbiamo compiuto un viaggio liscio come l’olio. Ci siamo infilati dentro e fuori dall’iperspazio ritrovandoci regolarmente nel punto voluto, e nello stesso modo abbiamo effettuato il percorso di ritorno. Solo che, là… fuori, abbiamo incontrato degli… alieni.»

«Avete incontrato degli alieni?»

«Proprio incontrati no. Li abbiamo visti, e ci siamo affrettati a tagliare la corda prima che ci scorgessero. Stavano costruendo una città, Eccellenza. Avevano tutta l’aria di… di trovarsi là per colonizzare il pianeta, proprio come intenderemmo fare noi.»

2

Quattro ore più tardi ebbe luogo una seduta straordinaria convocata da McKenzie. I tredici uomini che governavano la Terra e la sua rete di mondi aggregati si riunirono nella Sala Lunga, al centonovesimo piano del Palazzo dell’Arconato.

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