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Robert Silverberg: La città labirinto

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Robert Silverberg La città labirinto

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Le talpe elettroniche e i robot ricognitori vengono stritolati, inceneriti, polverizzati, uno dopo l’altro: mandibole d’acciaio, laghi roventi, trabocchetti fotoelettrici, schermi deformanti, pareti di fuoco, fulminei marciapiedi a tagliola inghiottono e dilaniano i volontari. Ma ogni errore, ogni nuova vittima fa guadagnare qualche metro nella millenaria città-labirinto: al centro, inavvicinabile, c’è Richard Muller, l’unico abitatore, l’uomo che da nove anni vive d’odio e di ricordi, e che bisogna ad ogni costo convincere a uscire dal suo esilio e ad accettare una missione da cui dipende la sopravvivenza della specie.

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Robert Silverberg

La città labirinto

1

Da nove anni Muller viveva nella città-labirinto e ormai conosceva tutte le sue insidie, i suoi miraggi, i suoi trabocchetti e le sue trappole mortali.

Ciononostante, si aggirava con circospezione: la città gli riservava sempre diverse sorprese. Quella zona in particolare. Una volta era sfuggito alla morte per un capello, balzando indietro una frazione di secondo prima che un getto di energia, sprizzato all’improvviso, inondasse il sentiero davanti a lui con una fiumana ribollente. Muller aveva segnato sulla sua piantina quel punto e almeno altri cinquanta, però sapeva benissimo che potevano essercene ancora chissà quanti.

Sopra di lui, il cielo andava oscurandosi, e il verde carico e profondo del tardo pomeriggio lasciava il posto al nero della notte. Muller distolse per un momento l’attenzione dalla caccia e guardò le stelle.

Anche la loro disposizione gli era ormai familiare. Si era scelto le sue costellazioni, scrutando il cielo alla ricerca di ammassi di puntolini luminosi che si adattassero ai suoi gusti aspri e amari. Ecco, apparivano: il Pugnale, il Dorso, il Dardo, la Scimmia, il Rospo. Sulla fronte della Scimmia palpitava una piccola stella opaca: probabilmente il Sole della Terra. Muller non ne era sicuro, perché aveva distrutto le sue carte celesti quando era atterrato su Lemnos; tuttavia «sentiva» che quella pallina di fuoco doveva essere il Sole. La stessa stella formava anche l’occhio sinistro del Rospo. A volte Muller si diceva che il Sole non poteva essere visibile nel cielo di quel mondo desolato, distante novanta anni-luce dalla Terra, ma altre volte la cosa gli sembrava possibile. Dietro il Rospo, si allungava la costellazione che lui aveva chiamato Libra, Bilancia.

Nel cielo di Lemnos brillavano tre piccole lune.

Uno strano mondo. Comunque, non ci si stava male. L’aria era rarefatta ma respirabile; da molto tempo Muller aveva smesso di accorgersi che conteneva troppo azoto e troppo poco ossigeno.

Stringendo forte il calcio del fucile, ricominciò a percorrere lentamente le strade della città-labirinto, per procurarsi il cibo.

Aveva una scorta di viveri sufficiente per sei mesi, in uno stipo a prova di radiazioni nascosto a mezzo chilometro da lì, ma ogni notte se ne andava a caccia, per rimpiazzare subito quello che aveva consumato. Era un modo come un altro per ingannare il tempo; e poi voleva mantenere le sue scorte intatte per il giorno in cui il labirinto l’avesse storpiato o paralizzato. Il suo sguardo acuto esplorò le strade circostanti: dappertutto c’erano muri, schermi, trabocchetti. La luce delle tre lune analizzava e sezionava la sua ombra, scomponendola in immagini sdoppiate che gli danzavano davanti agli occhi.

Dal rivelatore di massa applicato all’orecchio sinistro scaturì un suono acuto. L’apparecchio aveva captato l’energia termica emessa da un animale di cinquanta-cento chili. Lo strumento, programmato per esplorare tre fasce, stava ora scandagliando quella media: animali da cibo. Comunque lanciava il segnale anche in prossimità della fauna da dieci-venti chili, animaletti dotati di zanne; e segnalava anche i bestioni superiori ai cinquecento. Poiché gli animali piccoli avevano un loro modo particolare di balzare improvvisamente alla gola, e i mastodonti masticavano tutto senza fare troppi complimenti, Muller cacciava quelli medi ed evitava gli altri.

Si accoccolò per terra, tenendo pronta la sua arma. Durante la caccia, l’unica preoccupazione era di appostarsi in un luogo sicuro, per evitare di finire lui in bocca a qualche animale più pericoloso mentre era intento a spiare la preda. Col tacco dello stivale sinistro, tastò il muro che gli stava alle spalle, per assicurarsi che non si spalancasse d’improvviso a ingoiarlo. Era solido. Bene. Indietreggiò fino a toccare con le spalle la pietra fredda e liscia. Appoggiò un ginocchio sul selciato e prese la mira. Il rivelatore di massa continuava a sibilare, indicando che la bestia era sempre entro il raggio di cento metri, e il suono si faceva di momento in momento sempre più forte.

Muller non aveva fretta. Era appostato su un lato di una vasta piazza delimitata da muri convessi, di vetro, ed era in grado di colpire facilmente qualsiasi cosa fosse spuntata da una delle pareti trasparenti. Quella notte cacciava nella zona E del labirinto, la quinta partendo dal centro, quella che lui considerava una delle più pericolose. Raramente oltrepassava la zona D, relativamente sicura, ma quella sera la sua voglia di avventura lo aveva spinto più avanti. Dal tempo del suo ingresso nel profondo del labirinto, non si era mai più arrischiato a tornare fino alle zone G o H, e soltanto due volte si era spinto sino alla F.

Alla sua destra, le linee convergenti di un’ombra si protesero da una delle pareti convesse. Il gemito del rivelatore di massa raggiunse la massima intensità prevista per un animale di quelle dimensioni. La Luna più piccola, Atropos, roteando vertiginosamente nel cielo, cambiò i contorni dell’ombra: le linee non convergevano più, ma ora una striscia nera tagliava le altre due, l’ombra di un grugno. Un istante dopo Muller vide la sua preda.

La bestia aveva le dimensioni di un grosso cane, il muso grigio, il corpo bruno-fulvo e il dorso a gobba. Era brutta e aveva le caratteristiche del carnivoro. Per i primi anni Muller aveva evitato di dare la caccia ai carnivori, pensando che le loro carni non fossero gustose. Si era limitato agli animali che potevano considerarsi l’equivalente locale delle mucche e delle pecore terrestri: ungulati di temperamento mite, che scorrazzavano tranquillamente nel labirinto, nutrendosi dell’erba dei giardini. Soltanto quando la loro carne aveva cominciato a nausearlo si era deciso a inseguire uno degli animali con zanne e artigli, che si nutrivano di erbivori, e con sua grande sorpresa si era accorto che la loro carne aveva un sapore eccellente.

Muller aspettò che l’animale entrasse nella piazza. Dal suo nascondiglio ne sentiva i grugniti. Senza avvertire il pericolo, la bestia avanzò goffamente sul selciato liscio, graffiandolo con gli artigli. Il cacciatore assottigliò il raggio della sua arma fino a ridurlo al diametro di un ago, poi prese accuratamente la mira. Sebbene il fucile fosse sensibile al bersaglio e sparasse automaticamente al momento opportuno, Muller usava sempre il comando manuale. Lui e il fucile avevano obiettivi diversi: l’arma si preoccupava soltanto di uccidere, l’uomo di mangiare. Ed era più facile mirare e sparare da sé, che spiegare a un fucile che un colpo nella groppa tenera e succosa avrebbe privato il cacciatore del boccone migliore.

Scelse il punto in cui la colonna vertebrale si congiungeva al cranio. Bastò un colpo solo. L’animale cadde pesantemente. Muller lo raggiunse di corsa. Tirò via rapidamente le parti inservibili, testa, arti, interiora e avvolse in un involucro-spray il pezzo di carne staccato dal dorso. Infine tagliò una grossa bistecca anche dai quarti posteriori, legò i due involti e se li caricò sulle spalle. Poi girò sui tacchi, cercando con lo sguardo la strada a zig-zag, l’unico percorso sicuro per accedere al centro del labirinto. In meno di un’ora sarebbe arrivato al suo nascondiglio, nel cuore della zona A.

Era già in mezzo alla piazza, quando udì un rumore strano.

Si fermò e guardò dietro di sé. Tre animaletti si dirigevano a lunghi balzi verso la carogna che lui aveva abbandonato.

Ma non era il solito raspare dei divoratori di carogne, quello. Era una specie di rombo lontano, soffocato da un pulsare aspro delle frequenze medie, troppo prolungato per far pensare al ruggito degli animali più grossi. Non l’aveva mai sentito prima di allora.

Mai. Almeno in quel modo. Però era registrato in qualche angolo recondito della memoria. Quel doppio rombo soffocato dalla distanza…

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