Robert Silverberg - Il secondo viaggio

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Nel mondo del prossimo futuro immaginato da Silverberg in questo romanzo, i criminali incalliti non vengono più condannati alla prigione ma mandati in particolari Centri di Riabilitazione, dove subiscono un trattamento di droghe che cancella come una spugna la loro personalità, lasciando un corpo con una mente vuota come quella di uno “zombie”. Su questa mente pulita come una lavagna, i terapisti del Centro di Riabilitazione costruiscono, con un paziente lavoro di anni, una nuova identità: una persona “fittizia”, dotata di un passato inventato ma dalle caratteristiche morali più salde di quelle della vecchia personalità. Paul Macy è una di queste persone “ricostruite”: il suo corpo apparteneva prima a Nat Hamlin, il più grande psico-scultore del mondo, un uomo di indubbio talento ma totalmente schiavo dei suoi istinti sessuali, al punto di diventare un inveterato stupratore nei sobborghi di New York.
Per i “ricostruiti” l’inserimento nella società non è facile, ma per Paul Macy le difficoltà si presentano fin dall’inizio quasi insormontabili: l’imbarazzo dato dalla notorietà di cui godeva la vecchia identità del suo corpo, il brusco incontro con Lissa, una ragazza telepatica con cui Hamlin aveva avuto una tempestosa relazione e soprattutto una serie di incubi ricorrenti in cui compare sempre la figura di Hamlin metteranno a dura prova la stabilità di Macy. E presto quello che appariva solo un incubo si trasformerà in realtà: la personalità di Hamlin non è stata affatto annullata ed ora torna all’attacco della mente di Macy con demoniaca violenza e con la precisa volontà di riprendersi il suo corpo.

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Nat Hamlin che corre veloce alle sue spalle, con il suo stesso corpo, solo quattro anni più giovane. Gridando parolacce mentre corre. Che linguaggio che ha! Uno penserebbe che gli artisti siano tipi estetici, raffinati, invece eccoti questa antologia di sconcezze che mi rincorre. Grida: Ehi, tu, Macy, checca rincoglionita, fermati! Abbiamo un sacco di cose da dirci, stronzo!

Sicuro. La prima cosa di cui dobbiamo parlare è chi di noi due deve vivere e chi deve morire, e lo so già qual è la tua posizione su questo argomento, Nat. Perciò ho intenzione di continuare a darmela a gambe finché non crollo. Forse crollerai prima tu, anche se sei più giovane. Con tutto l’acido e le oro e le puttane che ti fai, mentre io ho fatto una vita sana al Centro, in tutti questi anni.

Avanti, avanti. Quasi al ponte adesso. Le torri scintillanti della Vecchia Manhattan davanti a me. Hamlin continua a urlare oscenità. Non è un occhio volante della rete quello lassù? Sicuro che lo è! Ci sta seguendo, registrando tutto quanto, nel caso ci sia un bell’omicidio. Chiama la polizia, macchina deficiente! Guarda, c’è un pazzo che mi insegue, un criminale condannato fuggito illegalmente nella vita dopo essere stato sradicato! Vedi, vedi, ha la mia faccia! Perché non fai qualcosa? Sono uno della rete, non vedi? Paul Macy, numero sei alle notizie della sera. Lo so che sei solo una macchina, un giornalista obbiettivo, un osservatore automatico e passivo, ma lascia perdere queste stronzate adesso. La mia vita è in pericolo. Se mi prende. E non ce la faccio più. Ho le budella in fiamme. Tutti quegli spaghetti dentro che vanno su e giù ad ogni passo. Il fegato che fa le capriole. Oh, Cristo, una mano sulla spalla. Preso!

Giù a terra. Le sue ginocchia contro le ascelle. Bloccato. Le sue labbra che sbavano. Un pazzo con la mia faccia. Vai via! Vai via! Vai via! E lui ride. E sopra la spalla vedo l’occhio volante che registra ogni cosa. Meraviglioso. E adesso ecco a voi gli ultimi momenti di Paul Macy, 39 anni, tragicamente assassinato dal suo alter-ego impazzito. Dopo un breve intermezzo pubblicitario offerto dalle Acapulco Oro. Andato. Andato. And…

Si muoveva stancamente in un sobborgo immerso nel sonno, Queens o Staten Island, non sapeva bene quale. Sembravano tutti uguali. Una gelida giornata di gennaio. Un’area di alta pressione si era stabilita sulla città: non si vedeva neppure una nuvola, soltanto una cupola azzurra che premeva sulla terra, nessun indizio di neve, anche se qualche cumolo annerito di quella caduta a Natale giaceva ancora lungo i margini della strada. In quel clima secco era difficile credere che sarebbe mai piovuto ancora. Gli alberi senza foglie simili a mazzi di stecchi che gridavano silenziosamente: sono una quercia, sono un acero, sono una magnolia, e nessuno che li ascoltava, perché sembravano tutti uguali. Tozze case in mattoni a due piani, a una distanza ragionevole l’una dall’altra, su entrambi i lati della strada. I bambini a scuola. I mariti al lavoro. Una mogliettina dietro ogni finestra munita di tendine.

Non sapeva bene come era arrivato fin lì. Era partito dal Connecticut alle nove e mezzo di mattina circa, il lavoro che gli veniva tutto sbagliato: un fottuto incubo nello studio, che era terminato in un orribile pasticcio, rovinandogli una settimana di fatiche. Poi si era messo in macchina, aveva attraversato la città, passando su due o forse tre ponti, e si era ritrovato lì. E quella familiare foschia gialla che gli circondava le tempie e la fronte, la nebbia umida della pazzia. L’accolse con piacere. Arriva un momento in cui uno si deve arrendere alle forze oscure. Sì, sì, avanti, prendete possesso di me. Nat Hamlin al vostro servizio. Chiamatemi Raskolnikov junior. Ah, quel matto di un russo ne capiva qualcosa! Come ribolliamo dentro. E qualche volta fuori.

Guarda quella casa. Una villetta di periferia perfettamente banale, vecchia di una cinquantina d’anni, prodotto dei folli anni Settanta, dei raccapriccianti anni Sessanta. Porterò qualche illuminazione nella sua squallida esistenza. Mediante un atto di volontà intensificherò l’esperienza di vita dei suoi abitanti. Vedi quanto è facile forzare la porta laterale? Solo un piccolo chiavistello: basta inserire la taglierina, muoverla su e giù, spingere… ecco.

Adesso entriamo. Buon giorno signora, sono lo stupratore pazzo, il satiro di Darien, e oggi vendo terrore estatico. No, non gridi, sono suo amico. Non faccio del male inutile. Le assicuro che non sarei qui, se non fosse per questo impulso irresistibile che mi è venuto. È colpa mia se mi manca qualche rotella? Ognuno ha diritto ad avere il suo esaurimento. Specialmente se è un artista importante. Dovrebbe essere entusiasta sapendo chi la scoperà. Lei è diventata parte di una delle più significative disintegrazioni personali nell’arte occidentale. Come se io fossi Van Gogh e mi tagliassi il fottuto orecchio proprio qui sul linoleum della sua cucina. Questo non le fornirebbe come minimo un posto periferico nella sua biografia? Bene, allora. Lui ha avuto il suo collasso, io ho il mio. Venga qui, adesso. Togliamo quella vestaglia. Vediamo che razza di mercanzia offre. Scusi, non l’avrei strappata se lei avesse cooperato. Perché opporsi? Sarebbe molto più significativo per lei se si limitasse a stendersi e collaborare. Ecco, ecco. Vede, si sta bagnando per me! Come può negare l’attività delle sue glandole di Bartolino? Questa lubrificazione la qualifica come puttana, signora mia! Ah. Dentro. Dentro. Questo è il biglietto. Dentro e fuori, dentro e fuori. Con amore. Allegro. Allegrissimo! Wham, bang, grazie signora. Su la cerniera. Fuori dalla porta. Lo stupratore pazzo colpisce ancora. Abbiamo messo in scena l’ultimo affascinante episodio del nostro caso di crollo della personalità. Sembro così per bene, per essere uno psicopatico. Oops! Ehi, no, agente! Metta via quel paralizzatore. Non… ehi, calma… mi arrendo, accidenti, mi arrendo! Vengo senza opporre resistenza! Vengo… senza… opporre resistenza…

Sbattendo furiosamente le palpebre, la testa pesante, disorientato, si svegliò. Si trovò in un letto, il suo letto, le coperte che gli arrivavano sotto il mento, la luce accesa nella camera. Buio al di là della finestra. Le lenzuola fredde sulla pelle: qualcuno l’aveva spogliato. Da un gomito sgorgavano rivoli di dolore. Per un momento fu assolutamente incapace di rammentare il suo ultimo periodo di consapevolezza; poi gli avvenimenti nel ristorante del popolo gli tornarono alla mente. Lui che piantava in asso Lissa. La ragazza che lo chiamava. La voce di Nat Hamlin che gli sussurrava come un serpente nelle orecchie. Calamità. Collasso. Caos. — Ehi? — chiamò con voce spezzata. — C’è qualcuno? Ehi? Ehi?

Dall’altra stanza entrò la ragazza. Incorniciata nella porta. Nuda. Ancora più magra di quanto avesse immaginato, la gabbia toracica visibile, la doppia linea di muscoli sulla pancia piatta, le cosce sottili con una fessura di qualche centimetro fra di esse, fino in cima. I seni ancora pieni, però. Non grossi, ma ben fatti. Il triangolo rosso di peli. La pelle rosa, come se fosse stata fregata, ancora umida. Si è fatta un bagno. Sembra più giovane di cinque anni, adesso.

— Da quanto sei sveglio? — gli chiese.

— Circa mezzo minuto. Che giorno è oggi?

— È ancora la stessa notte di lunedì. Anzi, ormai è martedì mattina. L’una e mezzo del mattino.

— Mi hai portato a casa?

— Qualcuno mi ha aiutato. C’era un autista di taxi nel ristorante del popolo. Ti ha portato fuori. Cristo, ho avuto paura, Paul. Credevo che fossi morto!

— Hai chiamato un dottore?

Lei rise. — A quest’ora di notte? Sono rimasta seduta qui a guardarti, sperando che ne uscissi. Sembrava che avessi degli incubi. Gli occhi che roteavano sotto le palpebre. Ti ho toccato la mente una volta, più o meno per caso, e mi ha fatto paura: come se venissi inseguito lungo un vicolo. — Avvicinandosi al letto disse: — Stai bene? Hai il mal di testa?

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