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Robert Silverberg: Il tempo delle metamorfosi

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Velada Borthan è di certo uno dei pianeti più singolari dell’universo, inquietante intreccio di contraddizioni: un clima dolce accanto alle condizioni più aspre, la vita più naturale accanto alla costrizione dei propri sentimenti, una civiltà raffinata accanto alla barbarie morale. Insomma, un inferno o un paradiso a seconda dei punti di vista: e, fatto assurdo, i suoi abitanti avevano scelto deliberatamente l’inferno. Giardino dell’Eden alla rovescia, Velada Borthan era completo anche di tentatore e di frutto proibito: in una società nella quale il peccato supremo consisteva nell’aprire spontaneamente il proprio animo agli altri, il frutto proibito non poteva essere che il mezzo per far diventare della coscienza del singolo la coscienza di tutti. Sarà il Terrestre Schweiz a rivelarlo sconvolgendo un ordine che, per essere stato liberamente scelto, non era per questo meno spietato e inumano. Kinnall Darival, il giovane principe protagonista della vicenda, è l’uomo al quale viene affidato il segreto della droga che conduce alla comunione degli spiriti, spezzando i legami nei quali la sua gente aveva rinchiuso la propria personalità. In un mondo in cui l’affermazione di se stessi era vietata sino al punto da considerare osceno il parlare in prima persona, questa totale apertura personale non poteva essere che la peggiore delle bestemmie. Era però necessario passare attraverso di essa per riscattare Velada Borthan del suo inferno, anche a costo della perdita dell’unico sentimento consentito in una società che aveva fatto dell’insensibilità la massima delle virtù. Nessun vincolo è tuttavia più resistente di quelli imposti dalla morale, per quanto assurda e deviata possa essere: per causa loro si è anche disposti a rinunciare volontariamente al paradiso a portata di mano. Ottenuto premio Nebula in 1971. Nominato per premi Hugo e Locus in 1972.

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Ho le spalle larghe e il torace profondo. Una folta pelliccia di ruvido pelo scuro corre quasi dappertutto sul mio corpo. Le braccia sono lunghe, le mani grandi. Ho muscoli ben sviluppati, che affiorano sotto la pelle. Per un uomo della mia statura, mi muovo con grazia e scioltezza. Primeggio negli sport e, quando ero più giovane, ho lanciato l’asta piumata per tutta ia lunghezza delio Stadio di Manneran, cosa che fino ad allora nessuno era mai riuscito a fare.

La maggior parte delle donne mi trova attraente, ad eccezione di quelle che preferiscono un tipo d’uomo più delicato, più fanciullesco, e hanno paura della forza, della potenza e della virilità. Certo, il potere politico che ho avuto in rnano ai miei tempi ha contribuito a condurre nel mio letto diverse donne; ma senza dubbio esse erano attratte più dal mio corpo che da altre sottili considerazioni. La maggior parte è rimasta delusa, comunque. I muscoli potenti e la pelle villosa non sono sufficienti a fare un buon amante, né genitali imponenti come i miei sono una garanzia d’estasi. Non sono un campione d’accoppiamento. Vedete: non vi nascondo nulla. C’è in me una certa impazienza costituzionale che si manifesta unicamente nell’atto carnale. Quando penetro una donna, mi trovo rapidamente a dar sfogo alle mie passioni e raramente riesco a protrarre l’atto fino al piacere di lei. A nessuno, neppure al confessore, ho mai rivelato questa mia debolezza, né mai ho creduto che un giorno l’avrei fatto. Ma molte donne di Borthan hanno conosciuto questo mio grosso difetto nel modo più immediato, a loro spese, e senza dubbio qualcuna, inasprita, avrà sparso la voce, per giocarmi un tiro. L’ho scritto, adesso, per rimanere obiettivo. Non volevo che voi pensaste a me come ad un possente gigante peloso, senza sapere quanto spesso la mia carne ha tradito le mie voglie. È probabile che questa mia debolezza sia stata una delle forze che hanno forgiato il mio destino fino a questo giorno nelle Terre Basse Bruciate, e voi dovete conoscerla.

5

Mio padre era Eptarca ereditario della provincia di Salla, sulla costa orientale. Mia madre era la figlia dell’Eptarca di Glin; egli l’incontrò durante una missione diplomatica e la loro unione fu decisa, si disse, fin dal momento in cui si videro. Il primo figlio fu mio fratello Stirron, che ora è Eptarca a Salla al posto di mio padre. Io nacqui due anni più tardi e dopo di me vennero altre tre figlie; due di esse sono ancora vive, mentre la più giovane fu uccisa dai razziatori di Glin circa venti lune fa.

Ho conosciuto poco mio padre. Su Borthan, siamo tutti stranieri tra di noi, ma di solito il proprio padre è un po’ meno distante degli altri; col vecchio Eptarca non era così. Tra noi ci fu sempre un impenetrabile muro di formalità. Nel rivolgerci a lui, dovevamo usare le stesse formule di rispetto degli altri sudditi. I suoi sorrisi erano così rari che credo di poterli ricordare uno per uno. Una volta, non lo dimenticherò mai, mi prese al suo fianco sul trono di legno grossolanamente intagliato, mi lasciò toccare l’antica imbottitura gialla e mi chiamò affettuosamente col mio nome da fanciullo; era il giorno della morte di mia madre. Altrimenti mi ignorò sempre. Io lo amavo e lo temevo, mi nascondevo tremando dietro i pilastri del suo Tribunale per guardarlo mentre amministrava la Giustizia. Pensavo che se mi avesse scorto mi avrebbe annientato, ma non potevo privarmi della vista di mio padre in tutta la sua maestà.

Egli era, stranamente, un uomo sottile e di media statura: e io e mio fratello torreggiavamo su di lui fin da quando eravamo ragazzi. Ma c’era in lui una terribile forza di volontà che gli permetteva di superare qualsiasi ostacolo. Una volta, quando ero bambino, venne in visita all’Eptarchia un certo ambasciatore, un tipo dell’Ovest, grosso, abbronzato dal sole. Ancor oggi lo ricordo grande come il Monte Kongoroi: probabilmente era soltanto alto e grosso quanto lo sono io adesso. Durante il banchetto l’ambasciatore bevve troppo del nostro vino blu e disse di fronte a mio padre, ai suoi compagni e alla sua famiglia: — Si vorrebbe dimostrare la propria forza agli uomini di Salla, ai quali si potrebbe insegnare qualcosa in fatto di lotta.

— C’è qui qualcuno — replicò mio padre, con furia improvvisa, — al quale forse non c’è da insegnare proprio nulla.

— Che venga fuori — disse il grosso uomo dell’Ovest alzandosi e gettando via il mantello. Ma mio padre, sorridendo, e la vista di quel sorriso fece tremare i suoi cortigiani, rispose al vanaglorioso straniero che non sarebbe stato corretto farlo combattere mentre aveva la mente annebbiata dal vino. Queste parole, naturalmente, mandarono del tutto fuori di sé l’ambasciatore. Entrarono i musicisti per cercare di allentare la tensione, ma l’ira del nostro visitatore non accennò a diminuire, dimodoché, un’ora dopo, quando l’ubriachezza gli fu un poco passata, egli chiese ancora di incontrare il campione di mio padre. Nessun uomo di Salla, disse il nostro ospite, sarebbe stato in grado di resistere alla sua forza.

A questo punto l’Eptarca disse: — Combatterò io con te, io stesso.

Quella sera, io e mio fratello eravamo seduti all’estremità più lontana della tavola, insieme con le donne. Giù dal trono piovve, dalla voce di mio padre, la sbalorditiva parola «Io», subito seguita dall’altra «Io stesso». Erano oscenità che Stirron ed io avevamo spesso sussurrato ridacchiando nel buio della nostra camera da letto, ma non avremmo mai immaginato di sentirle pronunciare irosamente nella sala dei banchetti e proprio dalle labbra dell’Eptarca. Al colpo reagimmo in modo diverso: Stirron sussultò violentemente e rovesciò la sua coppa, mentre io mi lasciai sfuggire un acuto risolino a stento represso, d’imbarazzo e di delizia, che mi procurò un fulmineo schiaffo da parte della dama che si occupava di noi ragazzi. La mia risata era in realtà soltanto un modo per nascondere l’orrore che sentivo dentro di me. Non avrei mai creduto che mio padre conoscesse quelle parole, e meno che mai che le avrebbe pronunciate davanti a tale augusta compagnia. Combatterò io con te, io stesso. Mentre l’eco delle parole proibite ancora mi stordiva, mio padre si fece avanti rapidamente, gettò via il mantello, si pose di fronte al robusto ambasciatore, lo afferrò al gomito e alla coscia in un’agile presa sallana e lo mandò immediatamente lungo disteso sul lucido pavimento di pietra grigia. L’ambasciatore gettò un grido terribile: aveva una gamba ripiegata stranamente all’infuori, in modo da formare con l’anca un angolo impossibile. Per il dolore e l’umiliazione cominciò a battere più e più volte il pavimento con il palmo della mano. Forse, adesso, nel palazzo di mio fratello Stirron si pratica la diplomazia in un modo più sofisticato.

L’Eptarca morì quando io avevo dodici anni ed ero alle soglie della virilità. Ero vicino a lui, quando la morte lo prese. Per sfuggire la stagione delle piogge, a Salla, ogni anno egli andava a caccia di uccelli-spada nelle Terre Basse Bruciate, proprio nella zona in cui io adesso mi nascondo e aspetto. Fino ad allora, non ero mai andato con lui, ma quella volta mi fu permesso di accompagnare il gruppo dei cacciatori, dato che ormai ero un giovane principe e dovevo imparare quell’arte propria del mio rango. Stirron, come futuro Eptarca, aveva altre cose da imparare e rimase a Salla come reggente durante l’assenza di mio padre dalla capitale. Sotto un cielo plumbeo, pesante di nuvole, la colonna di veicoli, una ventina, si avviò fuori di città, verso occidente, attraversando la pianura invernale, spoglia e inzuppata d’acqua. Le piogge non ebbero pietà, quell’anno, e lavarono via la preziosa terra superficiale, fino a mettere a nudo l’ossatura rocciosa del nostro paese. Dappertutto i contadini si affannavano a riparare gli argini, ma i risultati erano scarsi. Vedevo i fiumi in piena portare via, insieme con l’acqua giallo-bruna, la ricchezza di Salla: e mi veniva da piangere al pensiero che quel tesoro veniva trascinato in fondo al mare. Quando arrivammo nella zona occidentale di Salla, la strada si fece stretta e cominciò ad inerpicarsi sulle prime pendici della catena degli Huishtor. In breve ci trovammo in una zona più asciutta e più fredda dove, invece della pioggia, dal cielo veniva giù la neve e dove gli alberi erano fasci di rami secchi sul candore accecante che copriva la terra. Seguendo la strada di Kongoroi, penetrammo nei Monti Huishtor. Gli abitanti ci vennero incontro per dare il benvenuto all’Eptarca mentre passava. Le montagne brulle sembravano denti di porpora contro il cielo grigio. Noi, pur dentro i nostri veicoli chiusi, tremavamo di freddo; ma la bellezza tempestosa di quei posti mi faceva dimenticare il disagio. Grandi distese piatte di rocce scure striate fiancheggiavano la strada e non vi era praticamente traccia di humus. Ad eccezione di alcuni punti ben riparati, non c’erano né alberi né arbusti. Voltandoci indietro, potevamo vedere giù in basso tutta Salla, come in una carta geografica, dal candore dei distretti occidentali fino alle popolose e scure spiagge orientali, il tutto in scala ridotta, quasi irreale. Non ero mai arrivato così lontano da casa, prima di allora. Anche se ormai eravamo nelle zone alte, anche se eravamo, come sembrava, a metà strada tra cielo e mare, le vette più interne dei Monti Huishtor si levavano ancora davanti a noi, e sembravano una grande muraglia che dividesse in due il continente da Nord a Sud. Le vette incoronate di neve si ergevano aspre da quella specie di continuo bastione di roccia nuda. Mi domandavo se saremmo arrivati fino in cima o se avremmo trovato qualche passaggio. Ero al corrente dell’esistenza del Passo di Salla, e sapevo che avremmo dovuto transitare di lì, ma in quel momento mi sembrava che il Passo fosse solo una leggenda.

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