Per contro, il secondo obiettivo posto dal Fondatore, la conquista delle stelle, si stava rivelando molto più arduo da realizzare.
L’uomo era bloccato all’interno del sistema solare della Terra dal limite imposto dalla velocità della luce. I razzi alimentati da combustibile chimico e perfino le navi a propulsione ionica erano troppo lenti. Marte e Venere erano facilmente raggiungibili, ma non così i pianeti più lontani. Allo stato attuale del progresso tecnologico, una nave avrebbe impiegato, nella migliore delle ipotesi, non meno di nove anni per compiere un viaggio di andata e ritorno sull’astro più vicino. Per questo l’uomo aveva reso abitabile Marte e, vista l’impossibilità di un’analoga conversione del pianeta Venere, si era adattato, a prezzo di una sostanziale modificazione del proprio organismo, a vivere in quell’ambiente alieno. Aveva minato le lune di Giove e Saturno, fatto qualche rara puntata su Plutone e inviato robot a esplorare Mercurio e i giganti di gas. Le altre stelle, si era limitato a guardarle tristemente dalla Terra.
Lo spostamento dei corpi nello spazio era governato dalle leggi della relatività, ma quelle stesse leggi non valevano necessariamente per i fenomeni paranormali. Noel Vorst ne aveva tratto la conclusione che l’unica strada percorribile per conquistare le stelle fosse quella extrasensoriale. Per questo aveva riunito a Santa Fe esperiani di ogni natura che, per generazioni e generazioni erano stati sottoposti a programmi di riproduzione forzata e di manipolazione genetica. Da quegli esperimenti erano nate interessanti varietà di soggetti dotati di poteri extrasensoriali, nessuno dei quali, però, aveva sviluppato la capacità di trasportare gli oggetti nello spazio. Per ironia della sorte, su Venere, invece, la mutazione telecinetica era avvenuta spontaneamente, come effetto collaterale dell’adattamento dell’uomo alla vita sul pianeta.
Ma i vorsteriani, non avevano alcun controllo su Venere, dove gli armonisti a avevano a disposizione i telecinetici che avrebbero permesso agli scienziati di Santa Fe di raggiungere senza difficoltà la più vicina galassia. E i venusiani, dal canto loro, mostravano scarso interesse all’ipotesi di prendere parte a una missione congiunta con i terrestri. Erano settimane, ormai, che Reynolds Kirby trattava con la sua controparte armonista nel tentativo di raggiungere un accordo.
Nel frattempo, gli scienziati di Santa Fe non avevano mai rinunciato all’idea di trasformare i terrestri in creature telecinetiche, in modo da non rendere più indispensabile la collaborazione degli imprevedibili venusiani. E, finalmente, dopo anni di sperimentazione, erano giunti a condurre gli esperimenti di riorganizzazione sinaptica su soggetti umani.
— Non funzionerà — aveva decretato Vorst, discutendo l’argomento con Kirby. — Dovranno lavorare ancora almeno mezzo secolo per ottenere qualcosa di significativo.
— Non capisco, Vorst. I venusiani possiedono il gene della telecinesi, no? Perché noi non lo duplichiamo? Visto tutto quello che abbiamo fatto con gli acidi nucleici…
Vorst sorrise. — Non esiste un "gene della telecinesi" vero e proprio. L’attitudine alla telecinesi, per così dire, fa parte di una costellazione di strutture genetiche. Noi abbiamo cercato in ogni modo di riprodurle in laboratorio per trent’anni, ma senza alcun successo. Abbiamo anche tentato un approccio casuale, perché è in questo modo che i venusiani hanno acquisito questa capacità, ma non abbiamo ottenuto nessun risultato. Adesso abbiamo intrapreso la strada della riorganizzazione sinaptica, intervenendo quindi sul cervello e non più sui geni; può darsi che, prima o poi, ci porti da qualche parte, ma io non posso aspettare altri cinquant’anni.
— Anche se vivrai sicuramente per un altro mezzo secolo.
— Ne sono convinto anch’io — convenne Vorst. — Ma non posso aspettare così a lungo. I venusiani hanno gli uomini di cui noi abbiamo bisogno. È ora di convincerli ad aderire alla nostra causa.
Con pazienza Kirby aveva corteggiato gli eretici e, finalmente, si cominciava ad intravvedere qualche lento progresso sul fronte delle trattative. Dopo l’insuccesso dell’intervento chirurgico, l’esigenza di un accordo con i venusiani era diventata ancora più pressante.
— Vieni con me — disse Vorst, mentre il paziente morto veniva trasportato fuori dalla sala operatoria. — Oggi esaminano quel ragazzo affetto da gargoilismo e voglio essere presente anch’io.
Kirby uscì dalla sala operatoria insieme al Fondatore. Un gruppo di accoliti li seguiva a distanza ravvicinata, pronti ad intervenire in caso di bisogno. Da qualche tempo, Vorst faceva rari tentativi di camminare e prediligeva l’uso della poltrona di telaschiuma. Kirby, invece, si sforzava di camminare con le sue gambe, nonostante non fosse molto più giovane del suo maestro. La vista dei due uomini che attraversavano le strade della cittadella non mancava mai di suscitare l’attenzione dei passanti.
— Non sei seccato per il fallimento dell’intervento? — domandò Kirby.
— E perché mai? Lo sapevamo fin dall’inizio che non sarebbe riuscito.
— E di questo ragazzo affetto da gargoilismo che cosa ne pensi? C’è qualche speranza?
— La nostra speranza è Venere — rispose Vorst pacatamente. — Lassù i telecinetici ci sono già.
— E allora perché ci ostiniamo a crearli qui sulla Terra?
— Per forza di inerzia. Perché in questi cento anni la grande macchina della Confraternita non ha mai rallentato un solo istante. Non voglio precludermi nessuna strada, in questo momento. Neanche quelle che quasi sicuramente sono vicoli ciechi.
Kirby scrollò le spalle. Nonostante tutto il potere che deteneva da anni all’interno dell’organizzazione (e il suo potere era immenso) non aveva mai avuto la sensazione di prendere qualche vera iniziativa. Tutti i progetti riguardanti il movimento erano sempre stati concepiti e decisi da Noel Vorst. Lui e soltanto lui sapeva a quale gioco stesse giocando. E se Vorst fosse morto quel pomeriggio, con la partita ancora aperta? Che cosa ne sarebbe stato del movimento? La grande macchina avrebbe proseguito la sua corsa per forza di inerzia? Ma per finire dove, si domandò Kirby?
Varcarono l’ingresso di un piccolo edificio di schiumavetro irradiato, di colore verde. Li precedevano esclamazioni soffocate di riverente stupore: stava arrivando Vorst! Alcuni uomini, avvolti in tuniche azzurre, gli andarono incontro per salutarlo. Lo condussero alla stanza sul retro in cui era rinchiuso il paziente. Kirby lo seguiva a ruota, incurante degli accoliti pronti ad afferrarlo nel caso avesse inciampato.
Il ragazzo era seduto su una sedia, legato da bende di contenzione. Non era una bella vista. Tredici anni, alto all’incirca un metro, il ragazzo presentava orribili deformità; era gobbo, sciancato, sordo, aveva la cornea opaca e la pelle granulosa e zigrinata. Un mutante, anche se non era stato prodotto in laboratorio. Il poveretto era affetto da gargoilismo, o sindrome di Hurler, una malattia congenita del metabolismo, scoperta due secoli e mezzo prima. Gli sfortunati genitori del ragazzo lo avevano portato in un tempio della Confraternita di Stoccolma, nella speranza che un bagno nel Fuoco Azzurro del reattore al cobalto potesse guarirlo. Naturalmente il ragazzo non era affatto guarito, ma un esperiano, presente in chiesa, aveva percepito in lui alcune doti nascoste e, grazie al suo interessamento, era stato condotto a Santa Fe. Kirby ebbe un moto di repulsione e rabbrividì.
— Qual è la causa di questa malattia? — domandò al medico al suo fianco.
— Un’anomalia genetica, che provoca un disordine metabolico a causa del quale si verifica un accumulo di mucopolisaccaridi nei tessuti dell’organismo.
Kirby annuì gravemente. — E si ipotizza che possa esistere un legame diretto fra questa malattia e i poteri paranormali?
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