— Ci sono molte creature simili a questa?
— Non saprei — rispose Enoch.
— C’è del caffè — fece Ulisse allo splendente. — Vuole un po’ di caffè?
— Cosa?
— È una bevanda deliziosa. Il grande contributo della Terra.
— Non ci sono abituato — rispose lo splendente. — Non credo.
Poi, rivolgendosi pomposamente a Enoch: — Sa perché sono venuto?
— Credo di sì.
— È una cosa sgradevole, ma devo…
— Se vuole, facciamo conto che la protesta sia stata fatta. Ne prendo atto.
— Perché no? — incalzò Ulisse. — Mi pare inutile tirare in lungo una scena penosa, lo dico per tutti e tre.
Lo splendente ebbe un attimo di esitazione.
— Altrimenti vada avanti — disse Enoch.
— No. Mi basta che una protesta non verbalizzata sia stata generosamente accolta.
— Accolta a una condizione — precisò Enoch. — Devo accertarmi che l’accusa sia fondata. Voglio vedere coi miei occhi.
— Non mi crede?
— Non è questione di credere o non credere. Se è una cosa che può essere verificata devo farlo, per me e per il mio pianeta.
— Enoch — intervenne Ulisse. — Il vegano è stato squisito. Non solo adesso, ma prima che tutto questo succedesse. La sua specie ha avanzato l’accusa con la più totale riluttanza. Hanno sofferto molto per proteggere te e la Terra.
— Quindi, sarebbe poco squisito da parte mia non credere a un’accusa sulla parola.
— Mi spiace — convenne Ulisse — ma è proprio così.
Enoch fece segno di no. — Per anni e anni ho cercato di conformarmi all’etica e alle idee degli esseri che sono transitati dalla stazione. Ho cercato di soffocare gli istinti umani e la nostra esperienza, di assumere i punti di vista degli altri e comprendere il loro modo di pensare, anche se a volte faceva violenza al mio. Sono contento perché ho avuto la possibilità di superare i limiti angusti della Terra e credo, anzi, di averci guadagnato. Ma questo riguardava me solo, mentre ora pare che la faccenda coinvolga tutta la Terra. È per questo che devo affrontarla dal punto di vista di un terrestre. In questa particolare circostanza, non sono solamente il guardiano di una stazione galattica.
I due non aprirono bocca e, dopo aver inutilmente aspettato, Enoch si avviò alla porta.
— Tornerò — disse.
Poi pronunciò la frase che permetteva alla parete di aprirsi.
— Se permette — disse pacato lo splendente — vorrei accompagnarla.
— Benissimo — rispose Enoch. — Venga.
Fuori era buio ed Enoch accese la lanterna. Lo splendente la osservava incuriosito.
— Combustibile fossile — spiegò Enoch. — Brucia all’estremità di uno stoppino imbevuto.
— Ci sarà sicuramente qualcosa di meglio — osservò l’altro, inorridito.
— Oggi sì, c’è di meglio — disse Enoch. — Ma io sono un tipo all’antica.
Precedette lo splendente facendo dondolare la lanterna, e il vegano lo seguì guardandosi intorno.
— È un pianeta selvaggio — osservò a un tratto.
— Qui sì, ma in altre zone è più addomesticato.
— Il mio pianeta è sotto controllo — disse lo splendente. — Ogni palmo è regolato.
— Lo so. Ho parlato con molti vegani e mi hanno descritto il vostro mondo.
Si diressero verso il granaio.
— Vuole tornare indietro? — domandò Enoch.
— No — rispose lo splendente — mi diverto molto. Quella è vegetazione selvatica?
— Si chiamano alberi — spiegò Enoch.
— E il vento soffia a piacere?
— Sì. Non abbiamo ancora imparato a controllare il clima.
La vanga si trovava dietro la porta della rimessa ed Enoch la prese, poi si incamminò verso il frutteto.
— Naturalmente lei è convinto che il cadavere sia scomparso — disse lo splendente.
— Mi aspetto di constatare che è scomparso.
— E allora perché insiste?
— Perché devo esserne certo. Non riesce a condividere il mio punto di vista, eh?
— Alla stazione ha detto di essersi sempre sforzato di comprenderci. Tanto per ricambiare, almeno uno di noi sta cercando di capire lei.
Enoch gli fece strada attraverso il sentiero del frutteto. Arrivarono al rozzo steccato che cingeva le sepolture; il cancelletto semiscardinato era aperto. Enoch lo attraversò e l’alieno lo seguì.
— L’ha sepolto qui? — domandò.
— È il cimitero di famiglia. Mio padre e mia madre si trovano qui, l’ho messo vicino a loro.
Passò la lanterna al vegano e si accostò alla tomba, armato di vanga. Infilò la lama nella terra.
— Vuole avvicinare un po’ la lanterna, per favore?
Lo splendente si avvicinò di un passo o due.
Enoch si inginocchiò e tolse lo strato di foglie cadute. Sotto c’era la terra soffice e fresca, smossa di recente, in mezzo alla quale si notava un incavo con un piccolo foro. Sfiorando il terreno, Enoch sentì le zolle franare attraverso il foro e cadere su qualcosa di duro.
Lo splendente aveva spostato di nuovo la lanterna, sicché Enoch non riusciva a veder bene, ma ormai aveva capito che era inutile scavare. Sapeva già quello che avrebbe trovato. Pensò che avrebbe dovuto mantenere una sorveglianza più assidua e non mettere la lapide, che infatti aveva attirato l’attenzione degli estranei. Ma la Centrale aveva detto "Fai come se fosse uno della tua specie" e lui aveva ubbidito.
Raddrizzò la schiena ma rimase in ginocchio; sentì l’umidità della terra che impregnava la stoffa dei calzoni.
— Nessuno me l’aveva detto — mormorò piano lo splendente.
— Cosa?
— Della lapide. E di quello che c’è scritto. Non sapevo che lei conoscesse la nostra lingua.
— L’ho imparata da tempo. Volevo leggere alcuni dei vostri papiri, ma temo di non aver fatto un gran lavoro.
— Ci sono due errori di ortografia e una piccola improprietà, ma sono cose di nessuna importanza. Quel che conta è che quando le ha scritte pensava come uno di noi.
Enoch si rialzò e prese la lanterna.
— Torniamo — disse brusco, quasi impaziente. — Adesso so chi è stato. Bisogna che lo trovi.
Le cime degli alberi sussurravano alla prima brezza. Più avanti, il ciuffo di betulle svettava in cima a una piccola altura che digradava per una trentina di metri, e che bisognava aggirare sulla destra per continuare a scendere il versante della collina.
Enoch si voltò per accertarsi che Lucy lo seguisse. Lei sorrise, facendo un gesto come per assicurargli che tutto andava bene.
Lui fece segno che dovevano piegare a destra, ma subito dopo pensò che era inutile avvertirla perché Lucy conosceva la collina altrettanto bene, se non meglio.
Enoch svoltò e seguì il bordo del costone roccioso, arrivò all’interruzione e cominciò a scendere verso il pendio sottostante. Da sinistra arrivava il rapido mormorio del ruscello che dalla sorgente sotto il campo precipitava nel dirupo roccioso.
Il pendio era più ripido, adesso, ed Enoch fece strada in diagonale.
Strano che anche al buio riconoscesse alcuni punti caratteristici del paesaggio: la vecchia quercia bianca e contorta che si affacciava dal fianco della collina a un’angolazione pazzesca; il boschetto di robuste querce rosse che cresceva su una gobba di massi precipitati, in una posizione che nessun boscaiolo aveva mai osato sfidare; il piccolo stagno pieno di canne piumose, annidato su una terrazza ricavata nel fianco del colle.
Lontano si scorgeva una finestra illuminata ed Enoch piegò da quella parte. Tornò a voltarsi e vide che Lucy lo seguiva sempre a pochi passi.
Quando ebbero raggiunto la rozza staccionata, s’infilarono fra un paletto e l’altro e proseguirono sul terreno ormai piano.
Un cane cominciò ad abbaiare nel buio e altri gli fecero eco, risalendo il pendio in gruppo per avvicinarsi ai nuovi venuti. Arrivarono di corsa, passarono intorno a Enoch con la lanterna e si lanciarono su Lucy, cambiando immediatamente atteggiamento. La vista della ragazza li trasformò da una muta di guardiani in un comitato d’accoglienza. Si alzarono sulle zampe posteriori, una massa indistinta di cani. La ragazza li accarezzò sulla testa e gli animali cominciarono a girarle intorno con passo festoso.
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