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James Blish: Guerra al grande nulla

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James Blish Guerra al grande nulla

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È possibile che gli altri mondi non siano abitati. Ma finora, niente esclude che possano invece ospitare forme di vita, simili o no alla nostra. Questo è un problema che le scoperte della nuova scienza rendono attuale e non più ignorabile, una questione che va considerata sotto tutti gli aspetti. Anche quello religioso. Infatti, fra i doveri della Chiesa c'è quello di mantenersi in linea coi tempi; e il punto a cui è arrivata la giovane scienza spaziale ha spinto appunto la Chiesa a interessarsi dell'eventualità che esistano altri pianeti abitati. A questo proposito importanti esponenti del Clero hanno consentito a rispondere alle domande dei giornalisti, e il risultato delle speciali recenti interviste è stato ampiamente pubblicato su autorevoli quotidiani. Il romanzo che presentiamo in questo numero sembra scritto proprio in seguito alle ipotesi formulate da un Padre Gesuita nel corso del colloquio cui abbiamo accennato. E, guarda caso, a protagonista del suo romanzo, James Blish ha scelto un Gesuita. Il tema è ardito, e solo un autore intelligente, obiettivo, e abile come Blish lo poteva affrontare. Ne è uscito il racconto più eccitante che sia mai stato scritto nel campo della fantascienza. Un romanzo che i lettori di Urania non possono ignorare. Premio Hugo per miglior romanzo in 1959.

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Padre Ramon Ruiz-Sanchez, già del Perù, e sempre Chierico Regolare della Compagnia di Gesù, Sacerdote professo dei quattro voti, continuò a leggere. In ogni caso, sarebbe occorso un certo periodo di tempo perché Paul Cleaver, nonostante la sua impazienza, riuscisse a sfilarsi di dosso la tuta da giungla, e il problema era tuttora aperto. Era un problema vecchio di un secolo, proposto originariamente nel lontano 1939, ma la Chiesa non lo aveva mai risolto. Ed era diabolicamente complicato (l’avverbio «diabolicamente» era ufficiale, scelto con deliberata intenzione perché venisse preso alla lettera). Quanto al romanzo che aveva posto il problema, esso era all’ Index expurgatorius , e il Padre Ruiz-Sanchez vi aveva accesso spirituale soltanto in virtù del suo Ordine.

Voltò la pagina senza prestare orecchio ai brontolii e al rumore di stivali che provenivano dall’ingresso. Il testo continuava indefatigabilmente, una pagina dopo l’altra, e si faceva più intricato, più perverso, più insolubile ad ogni parola:

«… Magravius minaccia di far molestare Anita da Sulla, selvaggio ortodosso (e capo di una banda di dodici mercenari, i Sullivani), che desidera procurare Felicia a Gregorius, Leo, Vitellius e Macdugalius, quattro sterratori, se essa non si concederà a lui e se, inoltre, non ingannerà Honuphrius compiendo i suoi doveri coniugali quand’egli li esiga. Anita, che asserisce di avere scoperto tentazioni incestuose in Jeremias ed Eugenius…»

Ecco, aveva di nuovo perso il filo. Jeremias ed Eugenius erano…? Oh, certo, i «filadelfiani» o amanti fraterni (e qui, senza dubbio, doveva celarsi un altro crimine) citati all’inizio, consanguinei di infimo grado di Felicia e Honuphrius… e questi era chiaramente il principale fellone e marito di Anita. Magravius, che pareva nutrire ammirazione nei riguardi di Honuphrius, era stato indotto dallo schiavo Mauritius a far pressioni su Anita: probabilmente sotto l’egida dello stesso Honuphrius. La cosa, tuttavia, era giunta ad Anita per il tramite della sua cameriera Fortissa, che era — o un tempo era stata — sposata civilmente con Mauritius e gli aveva dato dei figli… insomma, tutta la storia doveva venire valutata con la cautela più scrupolosa. E la confessione iniziale di Honuphrius era stata resa sotto tortura: volontariamente accettata, certo, ma pur sempre tortura. Il rapporto tra Fortissa e Mauritius, poi, lasciava ancor più adito al dubbio, e in verità era soltanto una supposizione del commentatore, Padre Ware…

— Ramon, per favore, mi date una mano? — gridò a un tratto Cleaver. — Mi si è inceppata la chiusura, e poi… non mi sento bene.

Il biologo gesuita si alzò, preoccupato, e mise via il libro. Una tale richiesta, da parte di Cleaver, non aveva precedenti. Il fisico sedeva su un «puf» di vimini intrecciati, imbottito di un muschio che ricordava il comune sfagno, che faticava a reggere il suo peso. Si era già sfilato la parte superiore della tuta da giungla in fibra di vetro, ed era pallido in viso e madido di sudore, anche se si era già tolto il casco. Con le dita tozze e malsicure dava secchi strattoni a una chiusura lampo che non voleva scorrere.

— Paul, perché non avete detto subito che non vi sentivate bene? Lasciate fare a me; riuscirete soltanto a peggiorare il guaio. Che cosa è accaduto?

— Non saprei dire esattamente — rispose Paul Cleaver, col fiato grosso e staccando le dita dalla lampo. Ruiz-Sanchez, inginocchiato accanto a lui, tentò di inserire di nuovo la linguetta metallica nella scanalatura dentellata. — Sono andato a fare un giro esplorativo nella giungla, per vedere se fosse possibile trovare qualche giacimento di pegmatite. È da un pezzo che sto pensando che un impianto pilota, qui, per la produzione di tritio, potrebbe dare un rendimento colossale.

— Dio non voglia — mormorò Ruiz-Sanchez.

— Eh? Ad ogni modo, non ho trovato nulla. Qualche lucertolone, delle cavallette, come al solito. Poi, improvvisamente, ho urtato una pianta, che assomigliava un po’ a un ananasso, e una delle spine mi ha perforato la tuta, pungendomi. Per il momento non m’è parsa una cosa grave, ma ora…

— Non per nulla portiamo queste tute. Vediamo un po’. Ecco, alzate le gambe e vi aiuterò a togliere gli stivali. Dove vi siete… Oh, certo, non ha un bell’aspetto, ve lo concedo. Altri sintomi?

— Mi sento la bocca secca — si lagnò Cleaver.

— Apritela — ordinò il Gesuita. Quando Cleaver obbedì, risultò che l’aver parlato di bocca secca era stato da parte sua un deliberato tentativo di minimizzare la situazione. La mucosa della bocca era quasi interamente coperta di ulcere poco belle a vedersi e senza dubbio quanto mai dolorose, dai contorni così precisi da sembrare che fossero state ritagliate con un coltellino.

Ma Ruiz-Sanchez non fece commenti, e atteggiò il volto a un’espressione di disinteresse. Se il fisico desiderava minimizzare la gravità delle sue condizioni, Ruiz-Sanchez non ci trovava nulla da ridire. Un pianeta straniero non è il luogo più indicato per privare un uomo delle sue difese psicologiche.

— Andiamo al laboratorio — disse. — Avete la bocca un po’ infiammata.

Cleaver si alzò, malfermo sulle gambe, e seguì il Gesuita nel laboratorio. Ruiz-Sanchez fece prelievi su parecchie ulcere, li mise su un vetrino da microscopio e li sottopose alla colorazione Gram. La colorazione richiedeva un certo tempo, ed egli lo occupò eseguendo il complicato rituale di disporre lo specchietto del microscopio in modo che ricevesse luce, dalla finestra, da una brillante nube bianca. Quando il timer dell’apparecchio emise un ronzio per avvisarlo che il processo di colorazione era terminato, egli sciacquò il vetrino, lo asciugò alla fiamma e lo dispose sotto la lente.

Come in parte temeva, non vide quasi nessuno dei diversi bacilli e spirocheti della normale, terrestre angina di Vincent, che il quadro clinico suggeriva e che egli avrebbe potuto guarire in ventiquattr’ore con una pastiglia di spettrosigmina. La flora buccale di Cleaver era normale, anche se troppo abbondante a causa dell’estensione del tessuto esposto: la «carne viva» delle ulcerazioni.

— Ora vi farò un’iniezione — disse Ruiz-Sanchez. — Dopo farete bene ad andarvene a letto.

— Ma neanche per sogno — protestò Cleaver. — Il lavoro che mi resta da fare è dieci volte superiore a quello che posso sperare di fare senza ulteriori intralci.

— Certo — ammise Ruiz-Sanchez. — Le malattie sono sempre un fastidio. Comunque, perché preoccuparvi se perdete un giorno o due, visto che, in qualsiasi caso, non riuscirete mai a finire?

— Che cosa mi sono buscato? — chiese Cleaver, con aria allarmata.

— Non vi siete buscato nulla — rispose Ruiz-Sanchez, quasi con rincrescimento. — Vale a dire che non avete infezioni. Ma il vostro «ananas» vi ha fatto un brutto tiro. In massima parte, le piante di questa famiglia, su Lithia, hanno spini o foglie ricoperte di polisaccaridi che per noi sono veleni. Il particolare glucoside in cui vi siete imbattuto oggi era probabilmente il veleno della scilla, o qualcosa di analogo. I sintomi assomigliano a quelli dell’angina di Vincent, ma sono più difficili a curarsi.

— E quanto durerà questa storia? — domandò Cleaver. Aveva sempre l’aria polemica, ma stava sulla difensiva, ora.

— Parecchi giorni almeno, il tempo necessario al vostro organismo a elaborare la sua stessa immunità. L’iniezione che sto per farvi è una globulina gamma, specifica contro la scilla, e modererà i sintomi fino a quando avrete acquisito una quantità sufficiente di anticorpi di vostra propria creazione. Ma nel processo, vi si svilupperà un febbrone da cavallo, Paul, e io dovrò imbottirvi di antipiretici, dato che anche poche linee di febbre sono molto pericolose in questo clima.

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