— “La mia gente ha finito di nascondersi”! — dice Ficifolia, facendo il verso a Shadrach in tono duro, con voce acuta. — Cristo. Cristo! Forse ti ho sottovalutato. Forse sei pazzo come tutti gli altri. Gengis Mao ti ha condannato a morte, ti ha messo sulla lista nera, e per te l’orgoglio razziale viene prima della sopravvivenza. Bravo, Shadrach! Molto nobile. Molto stupido.
— E dove potrei andare? I giocattolini del Khan mi spieranno dovunque. I giocattolini che gli hai inventato tu.
— Ci sono dei modi.
— Mascherarmi? Dipingermi la pelle di bianco? Mettermi una parrucca bionda?
— Potresti sparire come ha fatto Buckmaster.
Shadrach resta paralizzato. — Posso fare a meno di battute del genere in questo momento, Frank.
— Non sto parlando dei vivai. Parlo di sparire. Buckmaster l’abbiamo “fatto sparire” noi.
— Buckmaster non è morto?
— Vivo e vegeto. Abbiamo modificato il libro mastro del personale il giorno in cui è stato condannato. Abbiamo ritoccato cinque o sei bit , e ora i registri mostrano che Roger Buckmaster è finito ai vivai di organi il giorno tale, e che è stato ritagliato a dovere. Una volta che è nei registri, è più vero della realtà stessa. La realtà delle macchine è un ordine di realtà superiore alla realtà-realtà. Se ora Buckmaster appare su uno dei rilevatori del Khan, il computer deciderà che il dato è privo di senso e lo respingerà, perché si sa che Buckmaster è morto, e per definizione i morti non se ne vanno in giro per strada.
— Dove si trova?
— Questo ora non ha importanza. Quel che importa è che l’abbiamo salvato, e che possiamo salvare te.
— Abbiamo? Chi è questo noi?
— Neanche questo ha importanza.
— Dovrei credere a qualcosa di quello che mi hai detto, Frank?
— No. Certo che no. Sono tutte palle. A dire il vero, sono una spia del Khan e sto cercando di incastrarti. Cristo, Shadrach, usa la testa! Credi che stia cercando di metterti nei guai? Tu sei nei guai. Sto rischiando il culo per…
— Okay. Lascia che ci pensi, Frank.
— E allora pensaci, in fretta.
— Voi fate il vostro gioco di prestigio e io sparisco. Ora non ho più un’identità e non ho più un lavoro. Posso fare il medico, se me ne sto nascosto in una cantina? Io dovevo fare il medico. Magari non il medico di Gengis Mao, ma il medico di qualcuno sì, Frank. Se non faccio quel lavoro, non sono nessuno, sono uno spreco di capacità e di talento. Non sarò niente agli occhi di me stesso. A cosa servirebbe sparire per fare una vita del genere? E per quanto tempo dovrei starmene nascosto? Se devo passare il resto della mia vita rinchiuso in una cantina, non sarebbe tanto peggio lasciare che Gengis Mao mi usi per Avatar. Forse sarebbe anche meglio.
— Potresti essere costretto a nasconderti fino al giorno in cui Gengis Mao morirà. Ma poi…
— Poi? Quale poi? Gengis Mao potrebbe andare avanti a vivere un altro centinaio d’anni. Io no.
— Neanche lui — dice Ficifolia, con uno strano tono di minaccia nella voce.
Shadrach lo fissa meravigliato. Non è sicuro di credere anche a una sola sillaba di tutto questo. Buckmaster è vivo? Ficifolia è un sovversivo? C’è un complotto per liberarsi del Khan? Dentro di lui ribollono mille domande, ed è assetato di risposte; ma con la coda dell’occhio nota degli uomini in divisa grigia e blu, due Citpol in pattugliamento. Dunque, per ora non ci saranno risposte. Anche Ficifolia li vede e, dopo un cenno quasi impercettibile, dice: — Pensaci su. Fa’ le tue valutazioni, poi fammi sapere cosa vuoi fare.
— Bene.
— Ha mai visto una piena del genere?
— D’altronde non era mai caduta tanta neve come quest’inverno — dice Shadrach, mentre i Citpol passano oltre.
27 maggio 2012
Una notte piena di incubi. Ragnatele in bocca, radici che mi crescevano dalle dita. Premonizioni di morte. Si sta avvicinando la fine di Gengis Mao? Morboso, morboso. Svegliarsi e non esserci più. Il grande scontro col silenzio. Mi fa male. Svegliarsi e non esserci più. Essersene andati da qualche altra parte. O forse da nessuna parte, il grande buco nero. Più a lungo si vive, più strettamente ci si aggrappa alla vita: vivere diventa un vizio di cui è difficile liberarsi. Come sarebbe vuoto il mondo, se io dovessi lasciarlo. Puf, niente più Gengis Mao. Un vuoto! I venti soffierebbero qui dai quattro angoli della terra, per riempire lo spazio lasciato da me. Tornado. Uragano.
Oh, adoro pensare alla morte.
La morte può essere così istruttiva. La morte può dirti tante cose su come sei veramente. La morte può essere addirittura piacevole, immagino. La morte come esperienza di guarigione, sì, il vecchio corpo martoriato che cede volentieri lo spirito! Per qualcuno, immagino, è l’estasi più grande mai sperimentata.
Io ne sono terrorizzato.
Come morirò, come sarà la mia dipartita? Credo di aver paura degli assassini più di ogni altra cosa. Lasciare il mondo è una cosa, naturale e inevitabile. Esserne cacciati è completamente diverso, un affronto al sé, un insulto all’io. Non sarò capace di tollerare il momento di una simile specie di licenziamento. O la sensazione di transizione, gli attimi che precedono la fine, ritrovarsi faccia a faccia con l’assassino, contemplare l’addio alla vita mentre lui mi si avvicina col suo coltello, con la sua pistola o quel che sarà. Che sia anche una bomba, se dev’essere così. Che sia del veleno a effetto istantaneo versato nella mia zuppa. Ma non ci saranno assassini. Sono protetto troppo efficientemente. L’errore è stato non proteggere Mangu nello stesso modo. Comunque, Mangu non era Gengis Mao: la sua perdita non è stata per lui quello che la mia perdita sarà per me. L’idea di morire mi è completamente estranea. Sono troppo ricco di spirito, occupo uno spazio troppo grande nella coscienza dell’umanità; la mia sottrazione al mondo è più di quanto il mondo possa accettare. Sicuramente è più di quanto possa accettare io. Ma perché tutta questa morbosità? Strano, considerando come mi sento bene. Una tremenda carica di vitalità da quando ho fatto il trapianto dell’aorta. Le operazioni mi danno forza. Dovrei farmi fare qualche lavoretto agli organi tutte le settimane. Cambiare reni il primo di ogni mese, mettere una milza nuova il quindici. Sì. Nel frattempo, sano come sono, la morte non rinuncia a fare giochini con la mia anima mentre dormo. Credo che sia un divertimento, un passatempo delizioso, giocare con delle fantasie di morte. Abbiamo bisogno di una certa tensione nella vita, per trovare sollievo da quella insopportabile sensazione di direzione dell’esistenza. Quello scorrere degli eventi, ogni giorno segue il giorno precedente, alba, mezzogiorno, tramonto, buio, può essere una sensazione opprimente, paralizzante. E allora? La delizia di soffermarsi a immaginare la fine di ogni sensazione, vale a dire, la fine di tutte le cose. C’è gioia nel pensare a ciò che è lugubre. Specialmente, ma non solo, quando riguarda altri. C’è un termine tedesco, Schadenfreude, la gioia della tristezza, il piacere che si trae contemplando le sventure altrui. Questo secolo sfortunato è stato l’età dell’oro della Schadenfreude. Abbiamo conosciuto l’estasi della vita alla fine di un’era, tutti insieme siamo stati testimoni di tanti momenti beati di declino e rovina. Il bombardamento delle cattedrali nel 1914, le truppe inglesi sterminate nel fango, i massacri sovietici, il primo grande disastro economico, la guerra che l’ha seguito, Auschwitz, Hiroshima, il tempo degli assassinii, la caduta dei governi, la Guerra Virale, la decomposizione organica; così tante cose su cui versare lacrime, anche se naturalmente erano sempre gli altri a soffrire molto di più, e questo rende le lacrime più dolci. Nove oscuri decenni, e io ho sentito il sapore di ciascuno, e perché non dovrei guadagnare adesso un po’ di distanza interiore, rivoltare il principio, volgerlo all’interno: perché non piangere un po’ sulla morte di Gengis Mao? C’è più piacere nel lutto che nella morte. Gusterò e piangerò con la fantasia la mia dipartita. Quanto rimpiango la mia scomparsa! Il dolore più profondo per la mia morte è il mio. Adoro queste fantasticherie: mi sento così squisitamente triste per me stesso. Ma sto morendo davvero? Convoco Shadrach. Mi comunica i valori di questa mattina. Tutto normale, tutto sanissimo. Sono un fenomeno. Non me ne andrò dal mondo quest’oggi. Lunga vita al Khan! Diecimila anni al Khan!
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