— Per via delle stupidaggini che sputava fuori ieri l’altra notte a Karakorum, immagino. Ma non hanno arrestato Horthy, che si stava comportando in maniera altrettanto sovversiva. Horthy in questo momento si trova al di là di quella porta, nel Settore di Sorveglianza Uno. È stato lui a portare la notizia della morte di Mangu a Gengis Mao. Non l’ha ucciso per un pelo, con lo shock.
Nikki, alzando cupa lo sguardo, dice: — Forse è proprio quello che voleva.
Le cose si fanno più calme. I messaggi dall’interno di Gengis Mao indicano che la crisi medica è passata. Il Khan si sta riprendendo, gli affanni del mattino non avranno conseguenze gravi. A mezzogiorno, Mordecai si veste finalmente: vestiti da medico, di un grigio neutro. Si sente stravolto, disorientato; troppo sonno, dopo tutti quei mesi di insonnia: il sonnellino tra le braccia di Nikki e poi la lunga dormita nell’amaca, sia pure interrotta dall’emergenza, e adesso sente la mente annebbiata. Ma arriverà in qualche modo alla fine della giornata senza che la cosa si noti troppo.
Dirigendosi verso lo studio, attraversa come al solito il Vettore di Sorveglianza Uno, molto più tranquillo ora di quanto non fosse un quindici-venti minuti prima. Gli alti papaveri se ne sono andati, Gonchigdorge e Horthy e Labile e tutta quella folla, non rimane nessuno tranne tre sottoposti, un Citpol e due aiutanti di Avogadro; fissano seri il mosaico tremolante che fluttua attraverso le centinaia di schermi. Hanno gli occhi spenti. Sovraccarico d’informazione, di questo si tratta. Vedono così tanto che non sanno più quel che stanno vedendo.
Aggirando il Vettore di Comitato Uno, Shadrach, che non ha voglia di irrompere nel mezzo di una riunione di politicanti in quella mattinata tesa, segue la via più lunga per arrivare al proprio studio, passando per lo studio vuoto di Gengis Mao e per la maestosa sala da pranzo del Khan. Come sempre, è rassicurante per lui ritrovarsi circondato dalla familiarità dei suoi talismani, i suoi libri, la sua collezione di strumenti medici. Vaga da una bacheca all’altra, sentendosi già meglio. Prende in mano il suo divaricatore, un sinistro forcipe a gomiti divergenti usato per curiosare nelle ferite aperte. Pensa a Mangu, spiaccicato contro la pavimentazione dello spiazzo; scaccia il pensiero. Esamina la sega a denti sottili che qualche chirurgo del diciottesimo secolo usava per portare a termine operazioni. Pensa a Gengis Mao, livido, gli occhi vitrei, intento a ordinare arresti di massa. Decapitateli tutti! Potrebbe essere quello il prossimo passo; perché no? Mordecai raccoglie una bambola anatomica proveniente dalla Bologna del quindicesimo secolo, un elegante homunculus femmina in avorio… Qual è il femminile di homunculus , si chiede? Homuncula? Foeminacula? La pancia e il seno si sollevano alla pressione di un polpastrello, rivelando cuore, polmoni, organi addominali, perfino un feto, accoccolato nell’utero come un canguro nel marsupio. E i libri, oh, sì, i preziosi libri polverosi, precedentemente posseduti da grandi medici di Vienna, Montreal, Savannah, New Orleans. Il Philonium Pharmaceuticum et Cheirurgicum di Valesco de Taranta, 1599! La Gynaecologia Historico-Medica di Martin Schurig, 1730, ricca di dettagli di deflorazione, lussuria, penis captivus e altre cose mirabolanti! E questo è il vecchio Die Cellularpathologie di Rudolf Virchow, del 1852, che proclama come ogni organismo vivente sia “uno Stato di cellule in cui ogni cellula è un cittadino”, come una malattia sia “un conflitto tra i cittadini di questo Stato, originato dall’azione di forze esterne”. Aux armes, citoyens! Cos’avrebbe detto Virchow di fegati trapiantati, polmoni presi a prestito? Li avrebbe chiamati mercenari assoldati, non c’è dubbio: i soldati di ventura della metafora medica. Almeno si combatte lealmente, nelle guerre cellulari: senza defenestrazioni furtive, senza cecchini sul cavalcavia. E questo libro enorme: Grootdoorn, Iconographia Medicalis , seducenti incisioni antiche. Ecco, qui, San Cosma e San Damiano in questo ritratto del sedicesimo secolo, rappresentati nell’atto di attaccare la gamba del moro ucciso al moncherino della vittima di un tumore. Profetico. Chirurgia del trapianto versione ’500 dopo Cristo, eseguita postuma, niente di meno, dai sacri chirurghi. Se mai troverò l’originale di quella stampa, pensa Shadrach, lo regalerò a Warhaftig per Hanukkà.
Passa più di un’ora ad aggiornare la scheda medica di Gengis Mao: dettando un rapporto sull’operazione al fegato, aggiunge una postilla relativa al breve episodio di allarme del mattino. Un giorno il dossier su Gengis Mao sarà un classico della medicina, a fianco del Papiro di Smith e della Fabrica , e lui ci lavora su con impegno e coscienza, preparandosi il posto nella storia della propria arte. Ha appena terminato il resoconto, quando arriva una telefonata di Katya Lindman.
— Puoi scendere al laboratorio del Talos? — gli chiede. — Mi farebbe piacere mostrarti la nostra ultima simulazione.
— Lo posso immaginare. Hai sentito di Mangu?
— Naturalmente.
— Non sembri troppo preoccupata.
— Che cos’era Mangu? Mangu era un’assenza. Ora l’assenza è assente. La sua morte è stata un evento di portata maggiore di tutta la sua esistenza.
— Dubito che lui vedesse la cosa allo stesso modo.
— Sei così sensibile, Shadrach — dice lei nella voce piatta che, lui lo sa, Katya riserva alle espressioni di sarcasmo. — Vorrei provare anch’io l’amore che provi tu per il genere umano.
— Sarò lì tra un quarto d’ora, Katya.
Il laboratorio è al nono piano della Grande Torre, un posto decorato da un coacervo di cavi, connettori, circuiti stampati, coassiali, casse intere di chip a bolla, abbastanza materiale elettronico da strangolare un brontosauro. Nel mezzo di questo labirinto di equipaggiamento si materializza Lindman, che viene verso di lui con la sua andatura abituale: passi lunghi, affrettati. È tutta attività, l’immagine classica della scienziata iperefficiente. Indossa una camicetta bianca, una giacca da laboratorio color lavanda, sbottonata in alto, una gonna corta di tweed bruno. L’effetto è austero, deciso, severo; non lo mitigano le cosce scoperte, né la gonna piuttosto attillata o il solco visibile che divide i seni. Lindman non è donna che si dia cura di proiettare sex-appeal. E neppure ne ha bisogno, con Shadrach; esercita su di lui un’inquietante autorità fisica, di cui al medico sfugge l’origine. Quando è con lei, sente sempre di dover stare in guardia; contro cosa, non è sicuro.
— Guarda — dice lei trionfante, spazzando la stanza con un gesto ampio.
Lui segue con lo sguardo il braccio puntato fino a incontrare, nel mezzo del laboratorio, nell’unico spazio sgombro, una specie di rialzo; su un trono lì posato, sotto la luce abbagliante di un faretto, siede l’ultimo modello operativo dell’automa di Gengis Mao. Un solo robusto cavo giallo e rosso lo collega a un’unità di alimentazione. L’automa è una volta e mezzo le dimensioni naturali, un’imponente imitazione del Presidente, pelle plastica sopra un’armatura di metallo; il volto è una replica del tutto convincente, le spalle e il petto sono plausibilmente umani, ma al di sotto del diaframma il robot Gengis Mao è una massa incompleta di giunti e fili e circuiti scoperti, privo di pelle ma anche della stessa muscolatura meccanica interna che riempie la metà superiore. Sotto gli occhi di Shadrach, lo pseudopresidente protende il braccio destro verso di lui e, con un piccolo scatto impaziente della mano, un gesto dall’aria assolutamente umana, lo invita ad avvicinarsi.
— Non avere paura — dice Katya Lindman.
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