Kate Wilhelm - Gli eredi della Terra

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Gli eredi della Terra Vinto il premio Hugo per miglior romanzo in 1977.
Nominato per il premio Nebula per miglior romanzo in 1977.

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— È ancora lassù — sentì che qualcuno diceva. — Lo vedo da qui.

Barry aveva infranto le assi di una finestra, così da essere visto. Mark si rese conto che stava cercando di guadagnare tempo per lui, e tenendosi curvo cominciò a correre verso il fiume.

— Era tutto per questo — bisbigliò nuovamente Barry, rivolgendosi alla testa di Molly scolpita nel noce. Si sedette accanto alla finestra, le mani strette intorno alla testa di Molly. La sua figura chiaramente delineata dalla lampada dietro le spalle. — Era tutto per questo — disse ancora una volta, e si chiese se Molly, la Molly scolpita, avesse sempre sorriso così… Non sollevò lo sguardo quando le fiamme cominciarono a crepitare attraverso la casa, ma tenne la testa di Molly premuta con sempre più forza contro il petto, come per proteggerla.

Lontano, sul fiume, Mark era in piedi nell'imbarcazione a ruote, guardava le fiamme che s'innalzavano sempre più alte e piangeva. Quando la chiglia urtò contro la roccia, egli avviò il motore e poi, con le ruote a pale in funzione, proseguì lungo il fiume, sempre più a valle. Quando raggiunse la confluenza con lo Shenandoah, girò verso sud e risalì il corso finché l'imbarcazione non poté andare oltre. Era quasi l'alba. Si dedicò allora al mucchio d'indumenti che aveva raccolti negli alloggi delle riproduttrici, e lo suddivise in tante parti più piccole, confezionando con essi degli zaini per le provviste dell'imbarcazione; avrebbero avuto bisogno di tutto ciò che potevano trasportare.

Quando le donne avessero cominciato a muoversi, uscendo dal sonno profondo, avrebbe distribuito del tè e del pane di mais. Poi le avrebbe fatte sbarcare. Quindi avrebbe portato la barca a pale in mezzo al fiume, e l'avrebbe lasciata libera nella corrente perché fosse trasportata giù a valle. Ne avrebbero avuto bisogno, lassù, alla comunità.

Infine, lui e le donne avrebbero cominciato ad attraversare la foresta, diretti verso casa.

EPILOGO

Mark si tenne dietro gli alberi, quando si avvicinò ancora una volta al crinale sovrastante la valle. Venti anni, pensò. Venti anni da quando l'aveva vista l'ultima volta. Era possibile che avessero montato un elaborato sistema di allarme, ma lui pensava di no. Non quassù, ad ogni modo. Secondo tutte le apparenze, il bosco lassù era rimasto inviolato per molti anni. Fece di corsa gli ultimi metri fino al crinale, si nascose dietro un intrico di viti selvatiche, e guardò in basso. Per parecchi minuti non si mosse, respirando appena. Poi lentamente cominciò a scendere il pendio.

Non c'era alcun segno di vita. I pioppi crescevano in mezzo ai campi, i salici affollavano le rive del fiume; intorno agli edifici i ginepri e i pini che un tempo erano stati tenuti a debita distanza, ora crescevano alti quasi fino ai tetti. La siepe di rose era diventata una macchia folta e selvatica. Trasalì e si girò di scatto a uno strillo improvviso che sembrò quasi umano. Una dozzina di grandi uccelli si lanciarono in aria e volarono goffamente verso il vicino sottobosco. I polli si erano inselvatichiti, pensò con stupore. E gli altri animali? Non riuscì a vedere alcun segno del bestiame, ma doveva essere nei boschi, lungo le sponde del fiume, proliferando in tutta la regione.

Continuò ad avanzare. E nuovamente si fermò. Uno dei dormitori era scomparso, non se ne vedeva traccia da nessuna parte. Un tornado, pensò, e adesso vide la linea di distruzione che il tempo non aveva ancora del tutto cancellato, un sentiero tra la vegetazione dove non sorgevano edifici, nessun grande albero, soltanto le sagome più basse dei nuovi ontani, dei pioppi, e l'intrico delle graminacee, che avrebbero dominato, lì sul fondo della valle, finché gli abeti non fossero scesi dal fianco delle colline, finché i semi delle querce e degli aceri non fossero stati soffiati fin lì, trovandovi un sito adatto a impiantarvi le radici. Mark seguì la striscia tracciata dal tornado, sempre più certo, a mano a mano che avanzava, che proprio questo fosse accaduto. Ma non bastava a giustificare la morte dell'intera comunità. Non da solo, almeno. Poi, Mark vide le rovine del mulino, e si arrestò.

Il mulino era stato completamente distrutto: soltanto le fondamenta e i macchinari arrugginiti indicavano che un tempo si era trovato lì, l'ape regina meccanica dell'intera comunità, che erogava tutta la volontà, l'energia, i mezzi per il sostentamento della vita.

La fine doveva essere sopraggiunta in fretta, senza il mulino, senza l'energia. Mark rinunciò ad avvicinarsi oltre. Chinò la testa e si avviò incespicando verso il fiume, non volendo veder altro.

Viaggiò verso casa più lentamente di quanto aveva fatto all'andata, fermandosi spesso a contemplare gli alberi, la verde, incorrotta distesa dei muschi; di tanto in tanto osservò una scintillante locusta che volava pesantemente attraverso la luce del sole, le ali iridescenti che lanciavano sprazzi di colore, per poi sparire repentinamente quando l'insetto cambiava direzione e i raggi del sole non lo colpivano più con l'angolatura giusta. Le locuste erano tornate, e con esse le vespe, e c'erano nuovamente vermi nel suolo. Mark si fermò accanto ad una quercia bianca di dimensioni mastodontiche che sovrastava la valle e rifletté sui cambiamenti di cui quell'albero era stato silenzioso testimone. Le foglie frusciavano sopra di lui, egli appoggiò un attimo la guancia alla corteccia dell'albero, poi proseguì.

A volte la solitudine era stata persino troppa, pensò, ma sempre, in quei momenti, aveva trovato conforto nel bosco, dove l'istinto non lo spingeva a cercare altri contatti umani. Si chiese se gli altri si sentissero ancora soli; nessuno ne parlava più. Sorrise, quando pensò alle donne, a quanto avevano pianto e gridato, a come ostentatamente si erano rifiutate di seguirlo, restando indietro nel bosco, soltanto per mettersi poi a correre, raggiungendolo ansanti e spaventate, ripetendo la pantomina più e più volte.

In cima alla collina sovrastante la sua valle si fermò, appoggiandosi a un acero, e contemplò le attività sottostanti. Uomini e donne lavoravano nei campi: sarchiavano le canne da zucchero, zappavano intorno al granoturco, raccoglievano i fagioli. Altri avevano abbattuto una parete dell'edificio dei bagni ed erano intenti ad ampliarlo: nuove mattonelle di argilla cotta al fuoco venivano aggiunte alla gola del grande camino, ampliando la superficie riscaldante e garantendo così una fornitura costante di acqua calda. Un gruppo di ragazzetti stava lavorando alla ruota idraulica, intenti a qualcosa che Mark non riuscì a distinguere.

Una dozzina o più di bambini stavano raccogliendo more lungo i bordi dei campi. Indossavano camicie dalle maniche lunghe e calzoni fino ai piedi, così da non graffiarsi troppo. Finirono la raccolta, misero giù i cesti e cominciarono a sfilarsi di dosso quegli indumenti pesanti. Poi, nudi, bruni come il legno di noce, ridendo, si avviarono verso il gruppo di edifici. Non ce n'erano due di uguali.

Cinquemila anni di barbarie, era convinto Barry, ma quello era tempo misurato coi gradini della piramide, e non valeva per chi ne viveva una qualsiasi frazione. Mark aveva condotto il suo popolo in un periodo senza tempo, dove il succedersi delle stagioni e i cicli del cielo e della vita, della nascita e della morte, e soltanto esso, scandiva i loro giorni. Ora le gioie degli uomini e delle donne, e le loro angosce, erano faccende private, che sarebbero andate e venute senza lasciare traccia. Nel periodo senza tempo, la vita era l'unico scopo, la vita in sé, non la ricostruzione del passato o l'elaborata progettazione del futuro. Il ventaglio delle possibilità si era quasi completamente chiuso, ma ancora una volta, sia pure lentamente, si stava riaprendo, e ogni nuovo bambino l'apriva ancora di più. Non si poteva chiedere di più.

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