Avevano chiamato i piccoli razzi lunari «Baba Yaga» perché… il primo a pensarci era stato Dufresne… essi ricordavano la capanna della strega montata su lunghe «zampe» che figura in un paio di pezzi popolari di musica classica russa, e che, nella tradizione che aveva dato origine ai pezzi musicali, andava in giro di notte proprio grazie a quelle zampe. Si diceva che gli astronauti lunari sovietici chiamassero le loro astronavi jeeps.
Ma ora il paragone con la capanna che camminava si stava facendo troppo realistico, perché le continue scosse verticali del lunamoto, che ormai Don non notava più, avendoci fatto l'abitudine, stavano facendo camminare il terzo Baba Yaga sulle zampe argentee, mano a mano che i sobbalzi lo facevano muovere. Uno dei piedi ammortizzatori era a un metro soltanto dall'abisso, e mentre Don osservava, si avvicinò di altri sei centimetri.
Don si rannicchiò, preparandosi a balzare. Si disse che Dufresne forse era decollato a bordo del razzo mancante, anche se lui non aveva visto il chiarore dei razzi. E Yo poteva essere, vivo o morto, sull'astronave che formava un bizzarro ponte sull'abisso. Gompert…
Il Baba Yaga fece un altro passo verso il precipizio. Don fece due rapidi passi a sua volta, sulla superficie sobbalzante, e poi si raddrizzò e afferrò l'estremità della scaletta che pendeva dal corpo dell'astronave, al centro delle tre gambe.
Facendosi forza, salì verso il portello, incastonato minacciosamente tra i cinque tubi — così simili a trombe — dei razzi. Il Baba Yaga ondeggiò. Don si disse che il suo peso abbassava un poco il centro di gravità dell'astronave, rendendo i suoi passi un po' più brevi.
Sally Harris e Jake Lesher erano su uno dei convogli della metropolitana che sarebbero stati fermati e vuotati alla stazione della 42 aStrada. L'ingorgo del traffico era stato pauroso, e l'auto di Jake era parcheggiata a Flatbush. La polizia aiutò il personale a sgombrare il convoglio della metropolitana, e a far salire in superficie i passeggeri.
«Ma perché, ma perché?» stava domandando Jake. «Sembra un brutto segno.»
«No, invece, un buon segno,» gli disse Sally. «Se ci fossero delle bombe, ci farebbero scendere. Inoltre, qui siamo vicini all'attico di Hugo. Com'è eccitante, Jake!»
Emergendo, trovarono Times Square gremita di folla, come non avrebbero mai creduto possibile alle tre del mattino.
Guardando a ovest, nella 42 aStrada, poterono vedere il Vagabondo ancora alto sull'orizzonte, così vicino alla Luna che i due corpi celesti quasi si toccavano. Sul lato sud della strada, la divisione dell'ombra produceva un mare di immobili persone gialle, e sul loro lato un mare di persone purpuree. Le insegne pubblicitarie al neon erano tutte accese, ma la loro luce era in parte sbiadita a causa della luce che scedeva dal cielo.
La piazza era silenziosa, come mai lo era stata; ma in quel preciso momento un uomo emerse alle loro spalle, gridando a gran voce:
«Edizione straordinaria! Leggete tutte le notizie sull'avvenimento del secolo! Tutti i particolari sul nuovo pianeta!»
Jake trovò degli spiccioli, e prese una copia del Daily Orbit. Il tabloid aveva la prima pagina che riproduceva l'immagine del Vagabondo, una fotografia ancora umida che lasciava sulle dita una traccia di rosso e di giallo; e oltre alla foto c'era un commento di sei righe, che chiunque avrebbe potuto ottenere guardando il cielo e poi l'orologio. Il titolo diceva: Strano globo nel cielo — Enigma per il genere umano.
«Per me non è certo un enigma,» disse Sally, con enorme allegria, e poi, sorridendo a Jake, aggiunse, «Io l'ho creato. Io l'ho messo lassù.»
«Non bestemmiare, ragazza!» l'ammonì cupamente un uomo dalla bocca enorme come una lanterna.
«Ah, lei crede che non l'abbia fatto io, eh?» domandò Sally. «Le farò vedere!» A forza di gomiti, si aprì uno spazio libero intorno, e lanciò la giacchetta a Jake. Poi, puntando il dito successivamente su Bocca di Lanterna e sul Vagabondo, e poi facendo schioccare le dita, mettendosi a ondeggiare sinuosamente, in maniera provocante, cominciò a cantare, in un elettrizzante contralto, con una melodia presa imparzialmente da «Porta Verde» e «Strano Frutto».
Strano globo!… nel cielo d'occidente…
Strana luce!… che piove dall'alto…
Don Merriam aveva acceso i motori del Baba Yaga, prima di assicurarsi le cinture di sicurezza, e quando il sistema interno aveva appena cominciato a funzionare. Il motivo era semplicissimo: sentiva l'astronave sobbalzare ormai sul bordo dell'abisso.
Aveva fatto il possibile e l'impossibile, per ridurre i tempi di partenza. Aveva fatto «scoppiare» l'interno, facendo uscire in una sola vampata tutto l'ossigeno, per aprirsi una strada diretta di accesso, invece che attendere il lento funzionamento del doppio portello di decompressione. Aveva chiuso avventurosamente i portelli, alle sue spalle, e aveva compiuto un controllo approssimativo delle condizioni di funzionamento, e aveva dato solo un'occhiata al sistema di ricambio dell'aria, pur sapendo che l'ossigeno della sua tuta spaziale si stava esaurendo… e per poco non era stato ugualmente troppo tardi.
Il freddo fuoco degli ugelli inondò con forza la crosta lunare, però. Molecole torride piovvero dalla coda del Baba Yaga a una velocità di quasi due miglia al secondo, e dopo un momento che parve durare un'eternità l'astronave s'innalzò, ma lateralmente, invece che verticalmente… muovendosi come un vecchio aeroplano al decollo.
Forse l'errore di Don fu quello di avere tentato una correzione di rotta… il suo vettore lo avrebbe portato probabilmente a descrivere un'orbita, forse con eguale efficacia. Ma egli stava pilotando a vista, e non gli piaceva il modo in cui la bianca superficie lunare, percorsa da enormi spaccature nere, continuava a gonfiarsi nello schermo, così immensa e vicina, ed egli sapeva benissimo che più rapida era la correzione, minore era lo spreco di combustibile, e non sapeva con sicurezza la quantità di combustibile e di ossidante che gli rimaneva… anzi, in quel momento ancora non sapeva con esattezza in quale delle tre astronavi gemelle egli si trovasse… e, oltre a tutto questo, probabilmente era già stordito, e i suoi ragionamenti erano illogici, per la mancanza di ossigeno, che doveva scarseggiare nella tuta.
Così, incurante della gravità e mezzo che lo attirava come un magnete, e lo schiacciava con forza, egli allungò lateralmente un braccio… fu un'impresa notevole, perché usualmente solo un meccanismo-robot avrebbe potuto farla; oppure un secondo pilota… e premette i tasti che accendevano tre razzi a combustibile solido sul fianco dell'astronave che era rivolto alla Luna.
L'accelerazione addizionale che essi diedero all'astronave, e la scossa prodotta dalla loro accensione, furono sufficienti a sbalzarlo dal sedile. Inesorabilmente, ma con allucinante lentezza, la leva gli sfuggì dalle mani, ed egli cadde pesantemente… assai più pesantemente di quanto non sarebbe caduto sulla Luna… sul pavimento, a circa quattro metri di distanza, e il suo casco urtò la nuca, facendogli perdere i sensi.
Dieci secondi più tardi, il reattore ad anilina-nitro si spense, come accadeva automaticamente a quelle astronavi quando il pilota lasciava andare la leva. I razzi a combustibile solido si erano esauriti una frazione di secondo prima. La correzione era stata calcolata con rimarchevole esattezza, date le circostanze. Il Baba Yaga saliva dalla superficie lunare quasi verticalmente, con sufficiente energia cinetica, quasi, da sfuggire alla sua attrazione. Ma ora la blanda gravità lunare stava rallentando l'astronave secondo per secondo, benché il Baba Yaga si stesse ancora velocemente sollevando in caduta libera, e avrebbe continuato a farlo per qualche tempo.
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