Robert Sheckley - Gli orrori di Omega

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Questa è la storia di Will Barrent, che esiliato dalla Terra piomba in quel mondo d’incubo che è Omega. E’ un pianeta di fuorilegge, che ha una sua particolare religione, una sua precisa idea sugli svaghi, una sua assurda organizzazione sociale in base alla quale solo l’assassino più abile, più feroce, e più fortunato, in un mondo fatto di assassini, può aspirare alla ricchezza e al potere. Un mondo in cui le proprietà della vittima vengono per legge ereditate dall’uccisori. E su questo mondo Will Barrent cerca disperatamente i ricordi che gli hanno tolto, la ragazza che l’ha salvato dalla morte per due volte, e la speranza di poter un giorno tornare sulla Terra nonostante le terribili astronavi di pattuglia orbita attorno a Omega. Quando riuscirà ad arrivare sul suo pianeta, si troverà fronte a qualcosa più pericoloso ancora dei «Giochi» di Omega: i suoi ricordi, il suo condizionamento di terrestre, ma soprattutto l’esasperato conformismo di una civiltà che si è arrenata al raggiungimento della perfezione meccanica.

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Robert Sheckley

Gli orrori di Omega

I

Riprendere conoscenza fu lento e doloroso. Come compiere un viaggio attraverso i tempi. Sognò. Gli parve di risvegliarsi da un sonno pesante e di uscire dall’immaginario inizio del tutto. Dal fango primordiale si sollevò uno pseudopodio, e quello pseudopodio era lui. Divenne un’ameba che conteneva tutta la sua essenza, poi un pesce distinto dalla sua particolare individualità, quindi una scimmia differente da tutte le altre scimmie. E alla fine divenne un uomo.

Che tipo di uomo? Si vide in modo confuso. Era senza volto, aveva una clava stretta nella mano, e un cadavere ai suoi piedi. Quello era il tipo di uomo.

Si svegliò. Si passò le dita sugli occhi e rimase in attesa di altri ricordi.

Ma non vennero. Neppure quello del suo nome.

Di scatto si mise a sedere e cercò di forzare il ritorno della memoria. Quando si accorse di non riuscirci, guardò attorno quasi cercando negli oggetti che lo circondavano qualcosa che gli permettesse di identificarsi.

Si trovava seduto su di un letto, in una stanza grigia e angusta. Da un lato, una porta chiusa. Di fronte, attraverso una tenda poté vedere una piccola stanza da bagno. La luce che illuminava il locale proveniva da una sorgente nascosta, forse era il soffitto stesso che emanava il chiarore. E nella stanza c’erano soltanto il letto e una sedia.

Appoggiò il mento alla mano e chiuse gli occhi. Cercò di catalogare tutto quello che sapeva, e di trarne una conclusione. Sapeva di essere un maschio della specie Homo Sapiens, e di essere un abitante della Terra. Parlava una lingua, e sapeva che questa era definita inglese. Significava forse che c’erano altre lingue? Era a conoscenza di definizioni comuni: stanza, luce, sedia. Possedeva inoltre limitate conoscenze generiche. Era conscio dell’esistenza di molte altre cose importanti che lui ora ignorava ma che una volta aveva sapute.

“Mi deve essere successo qualcosa.”

Quel qualcosa avrebbe potuto essere peggiore. Se fosse andato un po’ oltre, avrebbe fatto di lui una creatura senza mente, senza parola, ignara della sua essenza umana, di essere un uomo, una creatura della Terra. Invece gli era stata lasciata una certa coscienza.

Ma quando cercò di ricordare oltre le cognizioni basilari rimaste nel suo cervello, si trovò di fronte a una zona oscura e piena di orrori. “Vietato l’ingresso.” L’esplorazione nella sua mente poteva rivelarsi pericolosa come un viaggio verso… Verso dove? Non poté trovare un’analogia. Anche se sospettava che dovesse essercene una.

“Devo essere stato ammalato.”

Era la sola spiegazione ragionevole. Adesso era un uomo che doveva riordinare i ricordi. Una volta doveva aver saputo tutte quelle cose che ora poteva soltanto dedurre dal suo scarso bagaglio di cognizioni. Una volta doveva aver avuto chiare immagini di uccelli, alberi, amici, famiglia, della sua posizione, e forse di una moglie. Ora non poteva far altro che costruire teorie. Una volta doveva essere in grado di dire: “questo è molto simile a…” oppure: “questo mi ricorda…”. Ora, niente gli richiamava dei ricordi. Tutto era semplicemente fine a se stesso. Aveva perso ogni potere di critica o di paragone. E non poteva analizzare il presente paragonandolo alle esperienze del passato.

“Questo dev’essere un ospedale.”

Certo. Lo stavano curando. Abili dottori lo avevano certamente in cura per restituirgli la memoria, per ridargli un’identità, per risvegliare il suo senso critico, per dirgli chi era e quale fosse la sua professione. Era un’opera altamente meritoria, quella che stavano compiendo. Lacrime di gratitudine gli scesero dagli occhi.

Si alzò, e prese a camminare lentamente per la stanza. Si avvicinò alla porta e scoprì che era chiusa. Per alcuni istanti fu vittima del panico, ma si sforzò di controllarsi. Forse la porta chiusa era una precauzione. Forse aveva avuto una crisi di violenza.

Be’, non sarebbe più successo. Ne avrebbe convinto i medici. Dovevano concedergli tutti i possibili privilegi del paziente. Ne avrebbe parlato col suo medico curante.

Aspettò. Dopo parecchio tempo udì dei passi avvicinarsi lungo il corridoio, dietro la porta. Si mise a sedere sulla sponda del letto e rimase in ascolto, cercando di vincere l’eccitamento che lo aveva preso.

I passi si fermarono proprio dietro la sua porta. Poi il battente si aprì e nel riquadro comparve il volto di un uomo.

«Come vi sentite?» domandò lo sconosciuto.

Lui si avvicinò alla porta e osservò l’uomo. Indossava un’uniforme bruna. Dopo un attimo d’incertezza, riconobbe l’oggetto che pendeva dalla cintura della divisa: un’arma.

Quell’uomo doveva essere una guardia.

«Potete dirmi come mi chiamo?» chiese alla fine.

«Quattrocentodue» rispose la guardia. «È il numero della vostra cella.»

Non gli piaceva. Ma 402 era meglio che niente.

«Sono stato ammalato per molto tempo?» chiese ancora. «Sto meglio, adesso?»

«Sì» rispose la guardia, senza convinzione. «La cosa importante è che stiate tranquillo. Obbedite agli ordini. È l’atteggiamento migliore.»

«Certo» disse 402. «Ma perché non mi ricordo niente?»

«Di solito succede così» disse la guardia. Poi si voltò per allontanarsi.

402 lo chiamò.

«Aspettate! Non potete lasciarmi così. Dovete dirmi qualcosa. Cosa mi è successo? Perché sono in quest’ospedale?»

«Ospedale?» La guardia si voltò verso 402 e rise. «Cosa vi ha fatto pensare che questo sia un ospedale?»

«L’ho immaginato.»

«Avete immaginato male. Questa è una prigione.»

402 ricordò il sogno dell’uomo assassinato. Sogno o ricordo? Disperato, tornò a chiamare la guardia.

«Di che cosa sono accusato? Cosa ho fatto?»

«Lo saprete» disse la guardia.

«Quando?»

«Dopo che saremo atterrati. Ora tenetevi pronto per l’adunata.»

Si allontanò. 402 tornò a sedere sul letto e si mise a pensare. Aveva imparato alcune cose nuove. Quella era una prigione, e la prigione stava per atterrare. Cosa significava? Perché una prigione doveva atterrare? E che cos’era un’adunata?

402 ebbe solo un’idea confusa di quello che accadde dopo. Passò un periodo di tempo incalcolabile, durante il quale lui continuò a rimanere seduto, cercando di ricordare tutti i fatti che lo riguardavano. A un tratto ebbe l’impressione che un campanello suonasse. Poi la porta della cella si apri.

Perche?

402 si avvicinò, e sporse la testa nel corridoio. Era ansioso, ma non volle uscire subito dalla cella in cui si sentiva sicuro. Rimase ad aspettare. Poi una guardia lo raggiunse.

«Avanti» disse la guardia «nessuno vi farà del male. Andate fino in fondo al corridoio.»

Lo spinse gentilmente, e 402 cominciò ad avanzare. Vide altre porte aperte e altri uomini che ne uscivano. Erano in pochi all’inizio. Poi, lentamente, una folla si stipò nello stretto passaggio. La maggior parte di quegli uomini aveva un’espressione atterrita e nessuno parlava. Le uniche voci che si udivano erano quelle delle guardie.

«Andate avanti. Fino in fondo al corridoio… Andate avanti…»

Furono fatti entrare in un grande auditorio circolare. Guardandosi attorno, 402 vide un palco che si estendeva per tutta la lunghezza della stanza, e sopra, a intervalli regolari, uno schieramento di guardie. La loro presenza sembrava inutile. Gli uomini impauriti non erano certo in grado di iniziare una rivolta. Tuttavia, così gli sembrò di capire, quelle guardie dal volto arcigno avevano un valore psicologico. Dovevano ricordare a quegli uomini appena risvegliati il fatto più importante della loro vita: che erano prigionieri.

Dopo qualche minuto un uomo con un’uniforme molto semplice si affacciò al palco. Sollevò una mano per attirare l’attenzione. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno: tutti gli uomini riuniti nella sala lo stavano già fissando. Poi, nonostante l’assenza di microfoni visibili, si udì la sua voce rimbombare nell’auditorio.

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