«Be’, non si può avere tutto. La tua famiglia è con te?»
«Vogliono tornare sulla Terra.»
«Dopo cinque anni al posto di controllo, dicono che non si può ritornare sulla Terra. La gravità ti schiaccerebbe.»
«Eppure vorrei tornare alla gravità. In qualsiasi momento.»
Da quelle conversazioni Barrent comprese che le guardie dal volto arcigno in fondo erano soltanto esseri umani, proprio come i prigionieri che vivevano su Omega.
La maggior parte delle guardie non amava il proprio lavoro. Come gli Omegani, desideravano fare ritorno sulla Terra.
Accantonò queste informazioni per seguire il volo. L’astronave aveva raggiunto il posto di controllo e i meccanismi automatici lavoravano febbrilmente per la difficile manovra dell’attracco.
Infine, a manovra compiuta, tutti i motori si spensero. Attraverso gli apparecchi di comunicazione Barrent sentì le guardie che uscivano dalla sala.
Le seguì lungo il corridoio fino alla scala, e sentì l’ultima esclamare:
«Ecco la Squadra di Controllo. Che ci dite, ragazzi?»
Non sentì la risposta. Le guardie erano uscite, e nei corridoi risuonò un nuovo rumore, il passo pesante di quelli che le guardie avevano chiamato “Squadra di Controllo”.
Sembravano parecchi. Cominciarono l’ispezione dalla sala macchine, muovendosi metodicamente verso l’alto.
Dai rumori sembrava che aprissero ogni porta e che frugassero in ogni armadio.
Barrent strinse la pistola con la mano sudata e si chiese dove avrebbe potuto nascondersi. Ormai era certo che stavano guardando dappertutto.
La sua unica possibilità era quella di passare non visto alle loro spalle, e andarsi a nascondere in una parte dello scafo già perquisita.
Indossò un respiratore e uscì nel corridoio.
Un quarto d’ora più tardi Barrent cercava ancora il modo di arrivare non visto ai livelli già ispezionati. La squadra aveva finito di controllare i piani inferiori e si stava avvicinando al ponte di comando. Li poteva udire muoversi al piano immediatamente sottostante. Allora si avviò lungo il corridoio, cercando un posto in cui nascondersi.
Avrebbe dovuto esserci una scala alla fine di quel passaggio. Forse da lì avrebbe potuto scendere fino a un piano già ispezionato. Affrettò il passo chiedendosi se per caso non si stesse sbagliando sull’ubicazione della scala. Ancora non aveva un’idea molto chiara della planimetria dello scafo. Se avesse sbagliato, sarebbe finito in trappola.
Arrivò in fondo al corridoio, e vide la scala. I passi alle sue spalle risuonavano ormai vicini. Si lanciò giù dai gradini.
E andò a battere la testa contro l’enorme petto di un uomo.
Si tirò indietro di scatto, sollevando la pistola di plastica, pronto a sparare. Ma si trattenne. Di fronte a lui non c’era un essere umano.
Era alto più di due metri e indossava un’uniforme nera su cui spiccava la scritta: “Squadra Ispezioni-Androide B 212”. Il volto di plastica era una stilizzazione di quello umano. E sulla fronte brillavano due occhi di un rosso impossibile. Oscillava sulle gambe avanzando lentamente verso di lui. E Barrent indietreggiò chiedendosi se la pistola sarebbe riuscita a fermarlo.
Ma non ebbe la possibilità di scoprirlo. L’androide gli passò accanto continuando lentamente a salire le scale. Allora Barrent vide la scritta incisa sulle spalle dell’avversario: “Reparto Controllo Roditori”. Quell’androide era stato predisposto per lo sterminio dei topi. La presenza di un clandestino non gli aveva fatto nessuna impressione. Forse anche gli altri erano come questo.
Si nascose in un ripostiglio vuoto del piano inferiore e vi rimase finché non udì tutti gii androidi lasciare lo scafo. Poi tornò di corsa nella cabina comando. Nessuna guardia salì a bordo questa volta, e quando giunse l’ora di partenza il grosso scafo si staccò dal posto di controllo. Destinazione Terra.
Il resto del viaggio risultò monotono. Barrent mangiò, dormì e, prima che l’astronave entrasse nel subspazio, rimase a lungo in contemplazione delle stelle attraverso l’oblò. Cercò di creare mentalmente delle immagini del pianeta al quale si stava avvicinando, ma non ci riuscì. Che tipo di gente poteva essere quella che aveva costruito l’astronave su cui si trovava, ma che non aveva stimato necessario metterci un equipaggio? Perché si era mandata una squadra di ispezione con possibilità di controllo così limitata? Perché si deportava parte della popolazione e poi si trascurava di controllare le condizioni in cui i deportati vivevano e morivano? Perché cancellare dalle menti dei prigionieri ogni ricordo della Terra?
Barrent non riuscì a trovare risposta alle sue domande.
L’orologio della cabina comando continuava a girare contando le ore e i minuti di durata del viaggio. Lo scafo entrò nel subspazio poi ne uscì per iniziare l’orbita di decelerazione attorno al pianeta verde e azzurro che Barrent fissava con occhi pieni di emozione. Era difficile convincersi che stava per rimettere piede sulla Terra.
Lo scafo atterrò verso mezzogiorno di una giornata di sole, in una località del continente nordamericano. Barrent aveva deciso di sbarcare appena fosse scesa l’oscurità, ma sullo schermo del pannello si accese un antico e ironico avviso: “ Passeggeri ed equipaggio devono sbarcare immediatamente. Lo scafo verrà sottoposto al processo di decontaminazione entro venti minuti”.
Non sapeva cosa volesse dire processo di decontaminazione. Però, dato che veniva ordinato di scendere anche all’equipaggio, un respiratore non avrebbe garantito la sicurezza. Tra i due mali, quello di lasciare lo scafo sembrava il minore.
Il Gruppo Due gli aveva procurato vestiti che avrebbe dovuto indossare al momento dello sbarco. Quei primi minuti sulla Terra sarebbero stati cruciali. Nessuna astuzia gli sarebbe servita se quei vestiti fossero risultati strani, sorpassati. Il Gruppo Due non era riuscito a stabilire come vestissero gli abitanti della Terra. Alcuni avevano suggerito che Barrent indossasse un abito che secondo loro si avvicinava con una certa approssimazione a quello che doveva essere l’abbigliamento dei terrestri. Altri avevano avanzato l’opinione che dovesse tenere la divisa usata durante l’intero viaggio. Barrent, da parte sua, era di un terzo avviso. Sentiva che una tuta di meccanico sarebbe stata la meno vistosa in un astroporto, e, forse, quella che con il passare degli anni aveva subito minori variazioni.
Certo, la tuta lo avrebbe imbarazzato una volta che si fosse trovato in città, ma era meglio pensare a un problema alla volta.
Si tolse rapidamente la divisa di guardia e indossò la tuta. Nascose la pistola, e si avviò verso l’uscita reggendo in mano una borsa di plastica per la colazione. Ma prima di scendere esitò un attimo, chiedendosi se avrebbe fatto meglio a lasciare la pistola sull’astronave. Poi decise di portarla con sé. Una ispezione lo avrebbe tradito comunque, con la pistola però avrebbe avuto la possibilità di aprirsi la strada.
Trattenne il fiato e uscì dal portello, cominciando a scendere la scala.
Non vide guardie, né squadre d’ispezione, né polizia, né reparti militari, né funzionari di dogana. Non c’era nessuno. Da un lato, sul fondo del campo, si ergeva una fila di astronavi scintillanti al sole. Di fronte notò il cancello dal quale avrebbe dovuto uscire. Era aperto.
Si avviò verso il cancello con passo veloce, ma senza dimostrare eccessiva fretta. Non poteva credere che tutto fosse così semplice. Forse la polizia segreta della Terra aveva altri mezzi per controllare i passeggeri in arrivo.
Raggiunse il cancello. Vide soltanto un uomo di mezza età con un ragazzo di circa dieci anni. Sembrava quasi che stessero aspettando lui. Barrent non riuscì a credere che quelli potessero essere funzionari del governo; però, cosa sapeva lui della Terra? Superò il cancello.
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