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Isaac Asimov: Il sole nudo

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Isaac Asimov Il sole nudo

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Il Sole Nudo Ancora una volta un caso da risolvere. Ancora una volta Uomo e Robot assieme. Naturalmente, ancora una volta Baley e Olivaw. E ricomincia il sottile duello tra uomo e robot, tra istinto e ragione. Un argomento che molti tratterebbero con superficiale banalità , ma che nella penna di Asimov raggiunge livelli di incredibile meraviglia. Sarà  l’uomo a piegarsi alla razionalità  del robot, oppure R. Daneel Olivaw comprenderà  i meccanismi illogici del cervello umano? Ancora una meravigliosa avventura che lascerà  il lettore estasiato. La coppia più riuscita di tutta la letteratura di fantascienza. Ancora una perla del geniale Isaac Asimov. Un romanzo degno del precedente ( ) e un preludio eccellente al meraviglioso seguito: .

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Aver individuato della vanagloria anche negli spaziali lo aiutava.

Pensò: Giosafatte, siamo tutti umani: anche gli spaziali.

Quasi con impertinenza disse ad alta voce: «Per quanto tempo dobbiamo aspettare ancora quel veicolo? Sono pronto».

Il tubo ad aria dava segno di non essere stato adattato bene al nuovo uso. Uomini e umanoidi uscivano dall'astronave eretti, spostandosi lungo la trama flessibile che sotto il loro peso si piegava e oscillava. (Nello spazio, pensò confusamente Baley, chi doveva trasferirsi da nave a nave in caduta libera poteva scorrere per il tubo teso in tutta la sua lunghezza.)

All'altra estremità il tubo si restringeva bruscamente, con la trama che sembrava costretta da una mano gigantesca. Con la torcia in mano Daneel scese carponi, e così fece Baley. Fecero anche gli ultimi metri in quel modo, entrando infine in quello che era ovviamente il pianale di un veicolo.

Daneel chiuse la portiera attraverso cui erano entrati, facendola scorrere con cura. Ci fu un forte rumore ticchettante, che poteva anche essere quello del distacco del tubo ad aria.

Baley si guardò curioso in giro. Nel veicolo non c'era nulla di eccessivamente esotico. C'erano due sedili, uno dietro l'altro, ciascuno dei quali avrebbe potuto contenere tre persone. All'estremità dei sedili c'erano delle portiere. Le sezioni lisce che avrebbero dovuto essere finestrini erano nere e opache, come risultato, senza dubbio, di un'adatta polarizzazione. Di questo Baley era stato informato.

L'interno dell'auto era rischiarato da due zone circolari d'illuminazione gialla nel soffitto e, per farla breve, l'unica cosa che Baley trovava strana era il trasmettitore su un divisorio immediatamente di fronte al sedile come, naturalmente, il fatto che non vi fossero comandi in vista.

«Immagino che l'autista sia dall'altra parte di questo divisorio» disse Baley.

«Esattamente così, collega Elijah» confermò Daneel. «E possiamo dare ordini in questo modo.» Si chinò in avanti ad azionare un interruttore che fece accendere una luce rossa lampeggiante. «Puoi incominciare, ora» aggiunse quietamente. «Siamo pronti.»

Ci fu un ronzio in sordina che svanì quasi immediatamente, una pressione molto leggera e temporanea contro lo schienale del sedile, e poi più nulla.

«Ci stiamo muovendo?» chiese Baley sorpreso.

«Sì» confermò Daneel. «L'auto non si muove su ruote, ma slitta su un campo di forze diamagnetico. Tranne le accelerazioni e le decelerazioni, non sentirai nulla.»

«E per le curve?»

«L'auto s'inclina automaticamente per compensare. E il suo assetto orizzontale viene mantenuto anche in salita e in discesa.»

«I comandi devono essere complessi» commentò Baley asciutto.

«Completamente automatici. L'autista è un robot.»

«Umm.» Baley aveva saputo tutto quello che voleva sul veicolo. Aggiunse: «Quanto ci metteremo?».

«Circa un'ora. Un viaggio aereo sarebbe stato molto più veloce, ma mi preoccupavo di tenerti rinchiuso e su Solaria gli aerei non sono in grado di assicurare una chiusura completa come il veicolo su cui stiamo viaggiando.»

Baley si sentiva seccato per la “preoccupazione” dell'altro. Si sentiva come un bambino affidato alla bambinaia. Abbastanza stranamente si sentiva quasi seccato per il modo di parlare di Daneel. Gli sembrava che una struttura linguistica tanto poco necessariamente formale avrebbe tradito la natura robotica di quell'essere.

Per qualche istante Baley fissò con curiosità R. Daneel Olivaw. Il robot guardava fisso davanti a sé, immobile e inconsapevole dell'esame dell'altro.

La trama della pelle di Daneel era perfetta, i capelli e i peli del corpo splendidamente fabbricati e intricatamente inseriti al loro posto. I movimenti dei muscoli sotto la pelle erano molto naturali. Nessun disturbo, per quanto potesse sembrare stravagante, era stato risparmiato. Eppure Baley sapeva, per esperienza personale, che il petto poteva aprirsi lungo invisibili giunture in caso di riparazioni da farsi. Sapeva che sotto quella pelle realistica c'erano metallo e silicone. Sapeva che nella cavità del cranio si annidava un cervello positronico, tecnologicamente più evoluto, ma soltanto positronico. Sapeva che i “pensieri” di Daneel erano solo effimere correnti positroniche che correvano lungo i circuiti rigidamente progettati e preordinati dal fabbricante.

Ma dov'erano i segni che l'avrebbero rivelato all'occhio esperto di chi non sapeva già tutto? La mancanza di naturalezza nell'insignificante modo di parlare di Daneel? La seriosa gravità che risiedeva sempre in lui? La perfetta perfezione della sua umanità?

Ma stava sciupando tempo. «Proseguiamo, Daneel» riprese. «Immagino che prima di venir qui ti abbiano messo al corrente sulle caratteristiche di Solaria…»

«Sì, collega Elijah.»

«Bene. È molto più di quello che hanno fatto con me. Quant'è grande il pianeta?»

«Il suo diametro è 15.000 chilometri. È il più esterno di tre pianeti, e l'unico abitato. Nel clima e nell'atmosfera ricorda la Terra; la sua percentuale di terreno fertile è più alta, il suo contenuto di minerali utili e utilizzabili più basso, ma naturalmente è meno sfruttato. È un mondo autosufficiente e, con l'aiuto dell'esportazione dei suoi robot, può mantenere un alto tenore di vita per i suoi abitanti.»

«Quant'è la popolazione?»

«Ventimila abitanti, collega Elijah.»

Baley lo accettò per un momento, poi disse timidamente: «Volevi dire venti milioni, vero?». L'esigua sua conoscenza dei Mondi Esterni era sufficiente a fargli sapere che, anche se sottopopolate secondo gli standard della Terra, le popolazioni si calcolavano almeno in milioni.

«Ventimila abitanti, collega Elijah» ripeté il robot.

«Intendi dire che il pianeta è stato appena colonizzato?»

«Niente affatto. È indipendente da più di due secoli, e prima di allora era stato colonizzato da un secolo. La popolazione è sempre stata deliberatamente mantenuta al livello di ventimila abitanti, il che è considerato un optimum dagli stessi solariani.»

«Quanta parte del pianeta occupano?»

«Tutte le zone fertili.»

«Il che vuol dire, in chilometri quadrati?»

«Settantasette milioni di chilometri quadrati, comprendendo le zone marginali.»

«Per ventimila abitanti?»

«Ci sono anche duecento milioni di robot positronici che lavorano, collega Elijah.»

«Giosafatte! Cioè… Cioè diecimila robot per ogni essere umano.»

«È la proporzione più alta dei Mondi Esterni, collega Elijah. La successiva, su Aurora, è solo di cinquanta a uno.»

«E che cosa se ne fanno di tanti robot? È perché vogliono tanto cibo?»

«Il cibo è una necessità relativamente minore. Le miniere sono più importanti, e la produzione di energia più importante di tutte.»

Baley pensava a tutti quei robot, e quasi gli venivano le vertigini. Duecento milioni di robot! Tanti in mezzo a così pochi umani. I robot dovevano essere sparpagliati su tutto il paesaggio. Un osservatore esterno avrebbe potuto pensare che Solaria era un mondo di robot, senza notare il sottile lievito umano.

Sentiva la necessità di vedere. Ricordava la conversazione con Minnim e le predizioni dei sociologi sul pericolo per la Terra. Sembrava lontanissima e un po' irreale, ma se la ricordava. Da quando aveva lasciato la Terra, i rischi e le difficoltà personali avevano offuscato il ricordo della voce di Minnim, con le sue fredde e precise dichiarazioni, ma non l'aveva mai cancellato del tutto.

Baley aveva vissuto troppo tempo facendo il suo dovere per permettere che anche l'opprimente fatto dello spazio aperto potesse fermare la sua linea di condotta. I dati ricavati dalle parole di uno spaziale, o da quelle di un robot degli spaziali, in quanto a questo, erano i tipi di cose che i sociologi della Terra potevano già procurarsi. Ciò che serviva era l'osservazione diretta, ed era lavoro suo, per quanto spiacevole, eseguirla.

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