— Quante perdite?
— Due miliardi? Tre miliardi? — Hans scosse la testa. — Non è ancora finita. I mutamenti del clima elimineranno quelli rimasti.
— Tutti? Tutti gli abitanti della Terra?
Hans non rispose. Rimase seduto rannicchiato alla consolle, con lo sguardo fisso sullo schermo. Tutta la superficie del pianeta era una singola macchia scura. Dopo qualche minuto Wolfgang proseguì, tornando al proprio alloggio. Hans e gli altri avevano ragione. Ben presto le navi avrebbero attraccato, ma prima di questo c’era bisogno di solitudine e silenzioso dolore.
Charlene lo stava aspettando nella stanza al buio. Entrò e la prese tra le braccia. Per parecchi minuti rimasero seduti in silenzio, stringendosi l’un l’altro. La velocità degli eventi era stata tale per molte ore che erano rimasti storditi e soltanto adesso il loro orrendo significato aveva cominciato a diventare comprensibile. Per Charlene, in particolare, che aveva lasciato la Terra e l’Istituto Neurologico da appena ventiquattr’ore, ogni cosa dava una sensazione d’irrealtà. Sentiva che ben presto l’incanto sarebbe stato rotto e sarebbe tornata al familiare e confortevole mondo degli esperimenti, dei rapporti di aggiornamento, e degli incontri settimanali dello staff.
Wolfgang si mosse fra le sue braccia. Lei gli sollevò la mano e gliela sfregò contro la guancia.
— Quali sono le notizie su JN? — chiese lui alla fine. — Non mi è piaciuta l’espressione di de Vries.
Charlene rabbrividì nel buio. — Peggio non potrebbe essere. Jan si è incontrato con lei questa mattina, quando ha ricevuto dal laboratorio gli ultimi risultati dei test. Ha un tumore al cervello, maligno e in rapido sviluppo. Ancora peggio di quanto temessimo.
— Non si può operare?
— Questa è la parte peggiore… è quanto chiedeva Jan de Vries. Esistono un’operazione e un programma associato di chemioterapia, che hanno avuto successo in quattro casi su cinque. Ma i posti e le persone in grado di eseguirla si contano sulle dita di una mano. Non c’è nessun modo di farlo sulla Stazione Salter, hai sentito cos’ha detto la dottoressa Ferranti, ci vorrebbero cinque anni per mettere a punto le attrezzature necessarie.
— Quanto tempo le rimane?
— Due o tre mesi, non di più. — Charlene aveva trattenuto i propri sentimenti per tutta la giornata, ma adesso piangeva in silenzio. — Forse meno, l’accelerazione al momento del lancio le ha fatto perdere i sensi, e questo è un brutto segno. Erano soltanto tre G. E tutti i servizi medici sulla Terra che avrebbero potuto effettuare l’operazione, sono polvere. Wolfgang, è condannata. Qui non possiamo operarla e lei non può tornare laggiù.
Lui rimase nuovamente in silenzio per un po’, facendo dondolare gentilmente Charlene avanti e indietro fra le sue braccia. — Questa mattina sembravamo all’inizio di ogni cosa — disse. — Dodici ore più tardi… è la fine. Wherry l’ha detto: la fine di ogni cosa. Non te l’ho detto, ma sta morendo anche lui. Ne sono sicuro. Mi ha dato un messaggio per JN, perché si mettesse a lavorare sul sonno freddo per le arcologie. Gli ho promesso che l’avrei comunicato a Judith, e lo farò. Ma adesso non ha più nessuna importanza.
— Se ne sono andati tutti — disse Charlene con voce sommessa. — La Terra, Judith Niles, Salter Wherry. Cosa rimane?
Wolfgang rimase silenzioso per parecchi istanti. Nel buio, sentendo il corpo di lui caldo contro il proprio, Charlene si chiese se lui l’avesse davvero sentita. Cominciavano entrambi ad assopirsi, a mano a mano che l’esaurimento nervoso li drenava d’ogni energia residua. Si sentì troppo debole per muoversi.
Alla fine Wolfgang grugnì e si mosse. Esalò un lungo, fremente, sospiro.
— Rimaniamo noi — disse. — Siamo ancora qui. E ci sono gli animali. Qualcuno deve occuparsi di loro. Non possiamo lasciare che muoiano di fame.
Appoggiò di nuovu la testa sulla spalla di Charlene. — Rimaniamo qui, cerchiamo di dormire un po’. Poi potremo andare a dar da mangiare al vecchio Jinx.
Le sue parole suonarono rotte e indistinte, mentre sprofondavano nel sonno. — Qualcosa deve andare avanti… perfino dopo la fine del mondo.
Per quasi quattro ore non c’era stato nessuno scambio di parole. Ognuna delle tre figure abbigliate di bianco era assorta nei suoi particolari doveri, e le maschere di garza imponevano per giunta isolamento e anonimità. L’aria nella camera era fredda da gelare. Gli operatori si sfregavano le mani ghiacciate, ma erano riluttanti a indossare guanti termici rischiando una diminuzione dell’abilità nell’uso delle dita.
La donna sul tavolo era rimasta inconscia per tutto il tempo, li suo respiro era talmente debole che era necessario la rassicurante indicazione del monitor a indicare la sua sopravvivenza e la sua condizione stabile. Elettrodi e cateteri le entravano nell’addome, nella cavità del torace, ne! naso, negli occhi, nella colonna vertebrale e nel cranio. Uno spesso tubo era stato collegato a un’importante arteria nell’inguine, pronto a pompare sangue al congegno di scambio chimico sistemato sui tavolo.
Tutto era pronto. Ma aleggiava l’esitazione. I tre controllarono un’ultima volta i segni vitali, poi per tacito accordo uscirono dalla stanza e si tolsero le maschere. Per qualche istante si guardarono in silenzio.
— Dobbiamo davvero farlo? — chiese Charlene a un tratto. — Voglio dire, con tutte le incertezze e i rischi… noi non abbiamo nessuna esperienza con un essere umano. Zero. E non sono sicura di come dovrebbero venir modificate le diverse dosi di droga per adattarle ad una massa ed a una chimica corporea diverse…
— Quale altra azione suggeriresti, mia cara? — Jan de Vries era stato quello che si era opposto in maniera più veemente all’idea, quando gli era stata proposta la prima volta, ma adesso pareva molto calmo e rassegnato. — Riportare la sua temperatura corporea alla normalità? Cercare di svegliarla? Se questo è il tuo suggerimento, proponicelo. Ma devi essere tu quella, non io, che l’affronterà e le spiegherà perché non abbiamo acconsentito ad esaudire i suoi espliciti desideri.
— Ma se non dovesse funzionare? — La voce di Charlene tremava. — Guarda la nostra documentazione. È talmente rischioso… Abbiamo tenuto Jinx in quella condizione per tre settimane soltanto. Ed è tutto.
— E tu vuoi dirci, così, che la tua esperienza con l’orso non è utilizzabile?
— Chi lo sa? Potrebbero esserci cento differenze significative: la massa corporea, antigeni preesistenti, reazioni alle droghe. E anche altre cose assai più improbabili di queste. Per tutto quello che ne sappiamo, potrebbe funzionare con Jinx a causa di alcuni farmaci che abbiamo usato in precedenza durante gli esperimenti che abbiamo fatto su di lui. Ricordi quando abbiamo usato la stessa procedura con Dolly? L’ha uccisa. Dobbiamo tentare altri test, con altri animali… abbiamo bisogno di più tempo.
— Questo lo sappiamo tutti. — Wolfgang Gibbs non condivideva la calma fatalistica di de Vries, o il nervoso tentennare di Charlene. Pareva avere un interesse oggettivo nel nuovo esperimento. — Considera la cosa in questo modo, Charlene. Se potremo portare JN nel Modo Due durante le prossime ore, vi sono due possibilità. Se rimarrà stabile e riprenderà conoscenza, tutto è a posto. Cercheremo di comunicare con lei per scoprire come si sente. Se la porteremo nel Modo Due e non sarà stabile, potremo cercare di riportarla alle condizioni normali. Se ci riusciremo, avremo la possibilità di tentare di nuovo. Se falliremo, morirà. È questo che ti preoccupa. Ma se non tentiamo di stabilizzarla nel Modo Due, morirà comunque, ricordati della diagnosi. Se ne andrà in meno di tre mesi, e questo non possiamo cambiarlo. Poniti la domanda in questi termini: se ci fossi tu su quel tavolo, cosa vorresti che facessimo?
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