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Hal Clement: Nati dall'abisso

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Hal Clement Nati dall'abisso

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Nel futuro, la Commissione per l'Energia controllerà rigidamente il mondo. Nelle profondità dell'oceano, però, qualcuno ha preso una strada diversa… e qualcosa di nuovo sta per accadere sulla Terra!

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Il relitto scendeva lentamente, roteando. Mi avevano assicurato che questo non sarebbe successo, che il peso era distribuito in modo che la prua aguzza avrebbe sempre puntato verso il basso, lasciando la capsula in alto al momento dell’impatto… ma non c’era nessuno con cui potessi protestare. Sembrava che fosse impossibile rimediare, e cominciavo a domandarmi cosa avrei potuto fare, se la capsula fosse finita nella fanghiglia del fondo, con il relitto sopra. La manovrabilità era molto scarsa. Con tutto quel peso in eccesso, forse non sarebbe bastato liberarmi della zavorra per poter risalire verso la superficie.

Non potevo spostare il mio peso in misura sufficiente per modificare la rotazione. Il diametro interno della sfera era inferiore ai due metri, e gran parte di quel volume era occupato da apparecchiature fisse.

Alcuni miei amici hanno la tendenza a risolvere i problemi non facendo niente fino all’ultimo momento. Io sono sopravvissuto a parecchi di loro. Quando notai la rotazione, impiegai cinque secondi ad esaminare tutte le azioni possibili. Avrei potuto sganciarmi immediatamente dal relitto, rivelando la forma quasi sferica della capsula a chiunque mi stesse spiando con un buon sonar… sebbene fino a quel momento nessuno l’avesse fatto. Avrei potuto accendere le luci per vedere il fondo prima di andarvi ad urtare, e magari separarmi in tempo dal relitto, se fosse stato necessario; ma anche quello non si adeguava all’idea della protezione mimetica. Potevo starmene buono e sperare di toccare fondo nell’assetto giusto, nonostante la rotazione… cioè, starmene lì senza far niente. E questo poteva significare che forse avrei dovuto vedermela con le leggi della natura, che sono più difficili da convincere della maggioranza degli avversari umani.

Le due prime possibilità significavano… be’, forse Bert e Joey e Marie erano ancora vivi. Tesi la mano verso l’interruttore dei riflettori.

Non lo toccai, però. All’improvviso, potei vedere egualmente il fondo.

O almeno, sembrava che fosse il fondo. Era nella direzione giusta (riuscivo ancora a distinguere l’alto e il basso), e sembrava piatto. Ed era visibile.

CAPITOLO 2

Non lo credetti, naturalmente. Io sono un tipo tradizionalista, e persino nella narrativa amo il realismo: e quello era veramente troppo. Non avevo mai finito di leggere L’Abisso di Maracot, da ragazzo, perché descriveva un fondale oceanico luminoso. So che Conan Doyle non era mai stato laggiù, e la luce gli serviva per sviluppare la trama, che del resto non brillava per coerenza: ma la cosa mi dava fastidio. Sapevo che lo scrittore si sbagliava, lo sapevano tutti… il fondo dell’oceano non è luminoso.

Però lo era.

Il relitto roteante mi stava facendo oscillare verso l’alto, lontano dalla luce, ed io ebbi il tempo di decidere se dovevo credere o no ai miei occhi. Riuscivo ancora a leggere gli strumenti. Il quadrante della pressione indicava una profondità di millequattrocentoquaranta metri; con una rapida correzione mentale, basata sulla registrazione del termometro, aggiunsi un’altra sessantina di metri. Dovevo essere certamente vicino al fondo, da qualche parte, sulle pendici settentrionali della montagna il cui picco costituisce Rapa Nui.

Oscillai dolcemente, roteando verso l’alto, e poi ridiscesi dall’altra parte, e la mia visuale si orientò di nuovo verso il basso. Indipendentemente dal fatto che volessi credere o no ai miei occhi, questi insistevano nel dirmi che c’era luce, in quella direzione. Era una fioca luminescenza verdegialla… esattamente quella che si usa negli effetti d’illuminazione per dare l’impressione d’una scena sottomarina. Dapprima mi parve uniforme: poi dopo qualche altra giravolta circa sessanta metri più in basso, distinsi uno schema. Era formato di riquadri, con gli angoli un po’ più luminosi del resto. Non copriva interamente il fondale: l’orlo era quasi sotto di me, e si estendeva verso il nord, mi pareva, sebbene la mia bussola non reagisse troppo bene alle giravolte. Nell’altra direzione c’era la tenebra normale, consolante e spaventosa… quella era abbastanza reale.

Accaddero due cose, quasi nello stesso istante. Divenne evidente che avrei toccato fondo molto vicino all’area illuminata, e divenne altrettanto ovvia la natura di quell’area. Quella seconda rivelazione mi colpì. Per tre o quattro secondi, rimasi così infuriato e disgustato da non riuscire a ideare un piano, e di conseguenza per poco non ci lasciai la pelle.

La luce era artificiale. Credetelo, se potete.

Mi rendo conto che per una persona normale è difficile. È già una brutta faccenda sprecare energia per illuminare uno spazio all’aperto, ma talvolta è una triste necessità. Ma consumarla per illuminare il fondo marino… ecco, come dico, per qualche istante fui troppo furioso per pensare con chiarezza. Il mio lavoro mi ha portato a contatto con gente poco preoccupata per l’energia, con gente che la rubava, e persino con gente che l’usava male: ma quella era una prospettiva del tutto nuova! Adesso ero sceso ancora di più, e vedevo ettari ed ettari di luce che si estendevano verso nord, est ed ovest, fino a perdita d’occhio. Ettari ed ettari illuminati da cose sospese a pochi metri dal fondo piatto, cose visibili soltanto come punti neri al centro di aree leggermente più vivide. Se non altro, chi era responsabile di quella prodezza un po’ di senso dell’economia ce l’aveva: si serviva di riflettori.

Poi controllai l’indignazione: o fu la paura a farlo. Mi resi conto all’improvviso di trovarmi una dozzina di metri soltanto al di sopra delle luci. Non sarei sceso in mezzo ad esse, ma un poco più a sud. Non potevo dire «a sud, al sicuro». Non potevo dire «al sicuro», perché la combinazione formata dalla prua della Pugnose e dalla mia capsula girava abbastanza lentamente da consentirmi di prevedere l’assetto in cui avrebbe toccato il fondo, ed era certo che l’estremità aperta dello scafo sarebbe finita in basso.

A parte il fatto che, stando sotto il relitto, non avrei potuto vedere nulla, era molto probabile che non avrei potuto neppure fare nient’altro… per esempio, risalire alla superficie. Questa volta afferrai i comandi.

Poiché il problema della mimetizzazione era fondamentale, i separatori utilizzavano molle, anziché cariche esplosive. Attesi che la rotazione portasse lo scafo tra me e la luce, e premetti il pulsante. La spinta fu così leggera da indurmi a chiedermi, per qualche secondo, se non mi sarei cacciato in un guaio anche peggiore. Poi la luce cominciò a filtrare dagli oblò che prima erano coperti dallo scafo, e quella preoccupazione finì. Le molle avevano allontanato la capsula dalla regione illuminata, e così potevo vedere la prua della Pugnose profilata contro la luminescenza. La separazione aveva rallentato leggermente la mia caduta, mentre il relitto era un po’ più veloce di me, adesso. Qualcosa, se non altro, andava secondo i piani: il relitto avrebbe toccato fondo per primo, e non avrei corso il rischio di restarci intrappolato sotto.

Naturalmente, non avevo previsto di vederlo toccare il fondale. E certo non mi sarei mai aspettato di vedere ciò che accadde quando lo toccò.

In generale, le distese pianeggianti del fondo marino tendono ad essere piuttosto viscide. Lo chiamano fango di globigerine o fango di radiolari, ma comunque è fango. Potete trovare coralli e sabbia ed altra roba compatta nelle acque poco profonde, e talvolta oneste rocce sui pendii, ma dove il fondale è pianeggiante, dovete aspettarvi un incrocio tra una normale fanghiglia e lo strato superiore di uno stagno. Quando vi cade qualcosa di duro e pesante, anche se scende dolcemente, non potete aspettarvi che il fondo lo regga bene. Qualche volta potete avere delle sorprese, ma non potete mai aspettarvi che qualcosa rimbalzi sul fondo marino.

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