— Questo posto è proprio assurdo! — disse Flip, sedendosi davanti a me. Portava un baby-doll, calze rosa a mezza coscia e un paio di Mary Jane da quattro soldi, il tutto più o meno alla rovescia. — C’è una coda di quaranta minuti.
Sì, pensai, e dovresti essere lì a farla. — Il tavolo comune — suggerii.
— Nessuno si siede insieme, tranne zarri e sfigati — replicò. — Brine mi ha fatto sedere una volta al tavolo comune. — Si chinò a tirarsi su le calze a mezza coscia.
Non vedevo nastro adesivo. Flip chiamò con un gesto il cameriere e ordinò: — LattemacchiatoscrematolungoJazula e senza tanta schiuma. — Si girò a guardarmi. — Brine aveva ordinato latte con Sumatra! — Prese il sacchetto della libreria. — Cos’è?
— Il regalo di compleanno per la figlia della dottoressa Damati.
Flip aveva già tirato fuori il libro, e lo esaminò con curiosità.
— È un libro — dissi.
— Non hanno il videoregistratore? — Rimise il libro nel sacchetto. — Io le avrei comprato una Barbie.
Si tirò indietro il ciuffo di capelli e vidi che aveva sulla fronte una striscia di nastro adesivo. Nel mezzo aveva ritagliato un cerchio al cui centro c’era quella che pareva una i minuscola tatuata proprio fra gli occhi.
— Cos’è quel tatuaggio?
— Non è un tatuaggio — disse Flip, scostando i capelli per farmi vedere meglio. Era davvero una i minuscola. — Nessuno porta ancora i tatuaggi!
Stavo per ricordarle la sua civetta delle nevi, ma notai che anche lì aveva del nastro adesivo, una piccola toppa circolare proprio dove c’era stato il tatuaggio.
— I tatuaggi sono artificiali! Mettersi sotto la pelle tutti quei prodotti chimici e cancerogeni! Questo è un marchio.
— Un marchio — ripetei, rimpiangendo come al solito d’avere iniziato la discussione.
— I marchi sono organici. Non iniettano niente nel corpo. Portano alla luce ciò che già è presente nel corpo naturale. Il fuoco è uno dei quattro elementi, sa.
Sarah, a Chimica, sarebbe stata contenta di sentirglielo dire.
— Non ne avevo mai visti — dissi. — La i sta per…?
Flip parve confusa. — Sta per? Non sta per niente. Sono io! Io me, capisce. Chi sono io. Una asserzione personale.
Decisi di non domandarle perché il marchio era in minuscolo né se le era venuto in mente che qualcuno, vedendola con quel marchio, avrebbe subito supposto che i stava per “incompetente”.
— È “Io” — continuò Flip. — Una persona che non ha bisogno di nessun altro, soprattutto non di uno zarro che si siede al tavolo comune e ordina Sumatra. — Sospirò profondamente.
Il cameriere ci portò i caffellatte in tazze formato Alice nel Paese delle Meraviglie, cosa che poteva essere una moda, ma probabilmente era solo una soluzione pratica. Versare liquidi fumanti in bicchieri di vetro a volte genera risultati disastrosi.
Flip sospirò di nuovo, un sospiro smisurato, e con aria avvilita leccò la schiuma dalla parte convessa del cucchiaio dal lungo manico.
— Lei si sente mai prudere?
Poiché non avevo idea di dove volesse arrivare, leccai anch’io il cucchiaio e mi augurai che la domanda fosse retorica.
Avevo visto giusto. — Cioè, come oggi, per esempio — riprese Flip. — Arriva finalmente il weekend e mi ritrovo a stare seduta qui con lei. — Roteò gli occhi e sospirò di nuovo. — Gli uomini fregano, sa.
Immaginai che si riferisse a Brine dagli stivali rinforzati e borchie assortite.
— La vita frega! Dici a te stessa: “Cosa sto facendo nel mio lavoro?”.
Non molto, pensai.
— Così, tutti fregano. Non vai da nessuna parte, non realizzi niente. Ho già ventidue anni! — Mangiò una cucchiaiata di schiuma. — Perché non incontro mai un uomo che non sia uno zarro?
Forse per colpa del tatuaggio frontale, pensai; però io stessa, mi dissi, non ero in condizioni migliori delle sue.
— È proprio come dicono i Groupthink — soggiunse Flip. Mi guardò con aspettativa e poi emise un tale sospiro che pensai si sarebbe sgonfiata. — Come fa a non conoscere i Groupthink? Sono il complesso più alla moda di Seattle. È proprio come dice la loro canzone: “Perdendo tempo inutilmente sulla piattaforma di lancio, non so un tubo e mi sento prudere”. Questo posto è troppo deprimente. — Mi guardò male, come se fosse colpa mia. — Devo uscire di qui.
Prese lo scontrino e si aprì la strada fra la calca, verso il nostro cameriere.
Dopo un minuto quest’ultimo si avvicinò e mi diede lo scontrino. — La sua amica ha detto che paga lei — spiegò. — Ha detto anche di darmi il venti per cento di mancia.
AZZURRO ALICE (1902 – 1904)
Moda di colori ispirata dalla figlia del presidente Teddy Roosevelt, una vivace ragazzina della quale il padre una volta disse: “O faccio il presidente degli Stati Uniti o tengo sotto controllo Alice. Fare l’una e l’altra cosa è impossibile”. Alice Roosevelt fu una delle prime star dei media, e il pubblico copiava con entusiasmo ogni sua mossa, commento, modo di vestire. Quando un sarto creò per lei un abito grigioazzurro intonato ai suoi occhi, i giornalisti chiamarono “azzurro Alice” quel colore e lo resero subito popolare. La commedia musicale Irene presentò una canzone intitolata L’abito azzurro Alice, i negozi misero in commercio stoffa, cappellini e nastri color grigioazzurro, e centinaia di neonate furono chiamate Alice e vestite non nel rosa tradizionale, ma in azzurro Alice.
Uscita Flip, tornai agli annunci personali, ma parevano tristi e un po’ disperati: “Single bianca solitaria cerca qualcuno che capisca davvero”.
Girai per il Mall e notai T-shirt ispirate alle fate, cuscini ispirati alle fate, saponette ispirate alle fate e un’acqua di colonia Piccola Fata in una boccetta a forma di fiore. Il Paper Doll aveva cartoline d’auguri, calendari e carta da regalo ispirati alle fate. Il Peppercorn aveva un servizio da tè ispirato alle fate. Il Quilted Unicorn, mescolando varie mode, aveva una tazza da caffellatte dipinta con una fata vestita come una viola mammola.
Il sole era sceso, la giornata era diventata grigia e fredda. Pareva addirittura che dovesse nevicare. Passai davanti al Latte Lenya ed entrai al Fashion Front per scaldarmi e per scoprire quale fosse il colore rosa postmoderno.
Le mode riguardanti i colori di solito sono il risultato di una conquista tecnologica. Malva e turchese, i colori in voga nel 1870, furono lanciati da una conquista scientifica nella fabbricazione delle tinture. Lo stesso vale per i colori Day-Glo degli anni Sessanta. E per i nuovi colori delle auto, marrone metallizzato e verde smeraldo.
Il fatto che i colori nuovi siano pochi e molto intervallati nel tempo, però, non ha mai fermato gli stilisti. Costoro si limitano a dare un nuovo nome a un vecchio colore. Come il “rosa shocking” di Schiaparelli negli anni Venti e il “beige” di Chanel per quella che fino allora era stata una indefinibile sfumatura di marrone. Oppure danno al colore il nome di qualcuno, che lo porti o no, come il blu Vittoria, il verde Vittoria, il rosso Vittoria e il sempre popolare (e molto più logico) nero Vittoria.
La commessa del Fashion Front parlava al telefono con il suo ragazzo e si esaminava le doppie punte.
— Avete rosa postmoderno? — domandai.
— Sì! — rispose la commessa, in tono bellicoso, e tornò a parlare al telefono. — Ho una cliente. A dopo! — disse. Sbatté sul banco la cornetta e con andatura dinoccolata si avvicinò agli scaffali.
È una moda, pensai seguendola: Flip è una moda.
La commessa passò davanti a un bancone pieno di felpe ispirate agli angeli, offerte con uno sconto del 75%, e indicò lo scaffale. — Eccolo — disse, roteando gli occhi. — Rosa po-mo. Non postmoderno.
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