Arthur Clarke - La città e le stelle

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Diaspar, un’immensa metropoli del futuro. Una superciviltà arrivata all’ultimo stadio dello sviluppo. Un pianeta deserto, ostile, «proibito»: è in questo scenario che si muove Alvin, il giovane eroe di questo romanzo che resta fra i più celebri di Clarke. La domanda che lo ossessiona é: come riscoprire l’antico segreto della razza umana? Come uscire dal labirinto sotto vetro e tornare al volo spaziale?

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Volarono per chilometri sopra una catena di montagne aspre e appuntite come nei lontani giorni in cui erano nate. Quello era un mondo che non aveva mai conosciuto cambiamento o sfaceli, che non era mai stato colpito dal vento o dalla pioggia. Lì non erano necessari circuiti di eternità per conservare gli oggetti nella loro originale freschezza.

Ma se non c’era aria, non poteva esistere vita… o poteva esserci?

«Certo» disse Hilvar quando Alvin gli fece la domanda. «Non c’è niente di biologicamente assurdo in quest’idea. La vita non può avere origine in uno spazio privo di aria… ma può sviluppare forme in grado di sopravvivere. Dev’essere successo milioni di volte, su ogni pianeta abitato che abbia perso la sua atmosfera.»

«Ma come puoi credere che forme intelligenti di vita vivano nel vuoto assoluto? Non pensi che avrebbero cercato di evitare la perdita della loro aria?»

«Forse, se fosse accaduto dopo che gli abitanti avevano raggiunto un grado di intelligenza sufficiente. Ma se l’atmosfera fosse scomparsa quando essi si trovavano ancora a uno stato primitivo, non avrebbero potuto far altro che adattarsi o perire. Dopo essersi adattati potrebbero aver raggiunto un grado di intelligenza altissimo. E probabilmente lo hanno raggiunto…

L’incentivo era troppo grande.»

Il ragionamento, pensò Alvin, era puramente teorico. Per quanto riguardava quel pianeta, almeno. Da nessuna parte si vedeva il minimo segno di vita, intelligente o no. Ma in questo caso, quale poteva essere lo scopo di quel mondo? L’intero sistema multiplo dei Sette Soli, Alvin ne era ormai certo, era artificiale. E quel mondo doveva aver avuto un suo scopo.

Forse la sua funzione era stata puramente ornamentale: provvedere una luna al gigantesco compagno. Ma anche in questo caso, comunque, era probabile che avesse avuto una sua utilità.

«Guarda» disse Hilvar indicando lo schermo. «Sulla destra.»

Alvin corresse la rotta dello scafo, e il paesaggio ruotò davanti ai loro occhi. Le rocce rosse tremarono per un attimo, poi l’immagine si stabilizzò.

E sotto di loro apparve il segno inconfondibile di una vita.

Inconfondibile… e sconcertante. Era una fila di sottili colonne distanziate una trentina di metri l’una dall’altra, e alte cinquanta o sessanta metri. Si stendevano in lontananza con ipnotica prospettiva, fino a sparire oltre l’orizzonte.

Alvin cominciò a seguire la fila di colonne domandandosi a cosa potevano essere servite. Erano assolutamente identiche una all’altra, e superavano monti e valli. Nessun segno indicava che avessero sostenuto qualcosa. Erano perfettamente levigate, e si assottigliavano un poco verso la cima.

Di colpo piegarono ad angolo retto, e Alvin percorse ancora diversi chilometri prima di poter reagire e lanciare lo scafo nella nuova direzione.

Le colonne continuavano a stendersi una dopo l’altra con identica regolarità. Poi, dopo una settantina di chilometri, piegavano ancora verso destra ad angolo retto. «Se continua in questo modo», pensò Alvin, «torneremo al punto di partenza.»

La sequenza regolare delle colonne li aveva tanto ipnotizzati da accorgersi in ritardo che la continuità era stata interrotta. Hilvar gridò di tornare indietro, e Alvin, che non aveva notato niente, rifece con lo scafo il cammino percorso. Scesero lentamente su ciò che Hilvar aveva scoperto, e nelle loro menti si formò un sospetto fantastico, anche se in un primo momento non ebbero il coraggio di comunicarselo.

Due delle colonne erano rotte alla base ed erano riverse sulle rocce. Ma non era tutto. Le due colonne ai lati dell’apertura risultavano piegate verso l’esterno da una forza terribile.

C’era una sola conclusione possibile. Ora Alvin sapeva cos’erano quelle colonne. Era qualcosa che aveva visto parecchie volte a Lys, ma fino a quel momento, per l’enorme differenza di dimensioni, non era riuscito a capirlo.

«Hilvar» disse incerto, quasi non avesse il coraggio di trasformare il pensiero in parole «sai cos’è?»

«Stento quasi a crederlo… Abbiamo sorvolato i confini di un recinto.

Quello è un recinto…»

«Esseri che allevano animali simili» disse Alvin, col sorriso nervoso di chi vuol nascondere un timore «dovrebbero badare maggiormente alla robustezza dei loro recinti.»

Hilvar non rilevò la battuta forzata dell’amico. Osservava lo squarcio nel recinto, e aveva corrugato la fronte soprappensiero.

«Non capisco» disse alla fine. «Dove poteva esserci del cibo su un pianeta del genere? E perché gli animali sono usciti dal recinto? Darei non so cosa per sapere che tipo di animali erano.»

«Forse sono stati abbandonati, e sono usciti perché avevano fame» osservò Alvin. «O forse qualcosa li ha spaventati.»

«Abbassati» disse Hilvar. «Voglio dare un’occhiata al terreno.»

Si portarono a pochi metri dal suolo, e solo allora si accorsero che tutta la pianura era cosparsa di innumerevoli piccoli buchi, non più grandi di un centimetro o due. All’esterno del recinto però i buchi non erano visibili.

Cessavano dove le colonne segnavano il confine.

«Hai ragione» disse Hilvar. «È stata la fame. Ma non era un animale. Mi sembra più logico affermare che sia stata una pianta. Ha inaridito il terreno all’interno del recinto, ed è uscita in cerca di nuovo cibo. Con tutta probabilità si muoveva con estrema lentezza, e forse ha impiegato anni per rompere le colonne.»

L’immaginazione di Alvin colmò i dettagli che non sarebbe mai riuscito a conoscere con esattezza. L’analisi di Hilvar doveva essere sostanzialmente corretta. Qualche specie di mostro botanico doveva aver combattuto tenacemente contro la barriera che lo teneva prigioniero.

Forse era ancora vivo e vagava libero sulla superficie del pianeta. Cercarlo sarebbe stato inutile. Comunque perlustrarono alcuni chilometri quadrati di zona attorno all’apertura, e scoprirono una gran macchia circolare di fori, larga forse centocinquanta metri, che indicava un punto in cui la creatura si era fermata a mangiare… Se era «mangiare» quello di un organismo che traeva il nutrimento dalla roccia.

Mentre si sollevavano nuovamente nello spazio, Alvin provò uno strano senso di stanchezza. Aveva visto molte cose, ma non aveva appreso niente.

Tutti i pianeti erano ricchi di cose meravigliose, tuttavia ciò che lui cercava era scomparso molto tempo prima. Sapeva che sarebbe stato inutile esplorare i mondi dei Sette Soli. Anche se nell’Universo esisteva ancora una razza intelligente, dove la poteva cercare? Guardò le stelle sparse come polvere su tutto lo schermo, e comprese che era impossibile continuare le ricerche. Quel che restava del Tempo non sarebbe stato sufficiente a esplorarle tutte.

Si sentì afferrare da un senso di oppressione, e comprese la paura che Diaspar aveva per gli spazi dell’Universo, il terrore che aveva fatto rinchiudere i suoi abitanti nel microcosmo di una città. Era difficile crederlo, ma dopo tutto, avevano ragione.

Si volse a Hilvar per un po’ di conforto. Ma Hilvar era in piedi, coi pugni chiusi e gli occhi sbarrati. Teneva la testa piegata da un lato; pareva in ascolto, con tutti i sensi tesi ad analizzare il vuoto che li circondava.

«Che c’è?» gridò Alvin. Dovette ripetere tre volte la domanda, perché Hilvar non gli badava.

«Qualcosa si avvicina» rispose finalmente. «Qualcosa che non so capire.»

Parve ad Alvin che la cabina fosse improvvisamente diventata gelida.

L’incubo ancestrale degli Invasori lo afferrò, paralizzandolo. Con uno sforzo di volontà che assorbì tutte le sue energie, riuscì a dominare il panico.

«È ostile?» chiese. «Devo far rotta per la Terra?»

Hilvar non rispose alla prima domanda, solo alla seconda. La sua voce era fioca, ma non suonò allarmata né terrorizzata. Aveva piuttosto un accento di meraviglia e di curiosità, come se il giovane avesse scoperto qualcosa di così straordinario da non aver più tempo di occuparsi di Alvin e di preoccuparsi.

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