I mesi si ridussero a settimane, le settimane si ridussero a giorni, i giorni a ore; e, all’improvviso, Heywood Floyd venne a trovarsi, di nuovo, al Cape diretto verso lo spazio esterno per la prima volta dopo il viaggio di tanti anni prima fino alla Base Clavius e al monolito di Tycho.
Ma questa volta non era solo e non esisteva alcunché di segreto nella missione. Poche poltrone più avanti rispetto a lui viaggiava il dottor Chandra, già impegnato in un dialogo con il suo calcolatore portatile, e del tutto ignaro di quanto gli stava intorno.
Uno degli spassi segreti di Floyd, che egli non aveva mai confidato a nessuno, consisteva nel cogliere le similarità tra esseri umani e animali. Le somiglianze erano quasi sempre più lusinghiere che offensive, e questo suo piccolo hobby costituiva inoltre un aiuto assai utile per la memoria.
Paragonare il dottor Chandra a un animale risultò facile le parole «simile a un uccello» gli vennero in mente all’istante. Lo scienziato era minuscolo, delicato, e tutti i suoi movimenti avevano un che di rapido e di preciso. Ma quale uccello? Ovviamente un uccello molto intelligente. La gazza? No, era troppo impertinente e avida. Il gufo? No… si muoveva troppo adagio. Forse il passero costituiva il paragone più efficace.
Walter Curnow, lo specialista di sistemi, al quale sarebbe toccato il compito formidabile di rendere nuovamente operativa la Discovery, poneva un problema più difficile a risolversi. Si trattava di un uomo robusto, ben piantato, senza dubbio per nulla simile a un uccello. Di solito si riusciva a trovare un’analogia nella vasta gamma dei cani, ma nessun canide sembrava adattarsi a lui. Oh, ma certo… Curnow era un orso, non uno di quelli scontrosi e pericolosi, ma un orso amichevole e di buona indole. E forse l’analogia era appropriata anche per un altro motivo: ricordò a Floyd i colleghi russi che avrebbe raggiunto di lì a non molto. Loro si trovavano in orbita da giorni, impegnati negli ultimi controlli.
Questo è un grande momento della mia vita, si disse Floyd. Parto adesso per una missione che può decidere l’avvenire del genere umano. Ma non provò alcuna sensazione di esultanza; la sola cosa cui gli riuscì di pensare, durante gli ultimi minuti del conto alla rovescia, furono le parole che aveva bisbigliato subito prima di andarsene da casa: «Arrivederci, caro bambino mio; ti ricorderai ancora di me quando tornerò?» E inoltre continuò a risentirsi con Caroline in quanto non aveva voluto destare il bambino addormentato per l’ultimo abbraccio; eppure sapeva che ella era stata assennata, essendo molto meglio così.
Il suo stato d’animo venne disperso da una risata improvvisa ed esplosiva: il dottor Curnow stava raccontando una barzelletta ai compagni di viaggio, oltre a dividere con loro una grossa bottiglia che maneggiava delicatamente come se si fosse trattato di una massa di plutonio a malapena subcritica.
«Ehi, Heywood» gridò «mi dicono che il capitano Orlov ha chiuso a chiave tutte le bevande alcoliche, per cui questa è la tua ultima occasione. Château Thierry 1995. Scusa per i bicchieri di plastica.»
Sorseggiando lo champagne davvero superbo, Floyd si sorprese a rabbrividire mentalmente mentre pensava alle sghignazzate di Curnow riverberantisi ovunque nel sistema solare. Per quanto egli ammirasse le capacità dell’ingegnere, come compagno di viaggio Curnow avrebbe potuto dare alquanto ai nervi. Per lo meno il dottor Chandra non poneva problemi del genere; difficilmente Floyd riusciva a immaginarlo con un sorriso sulle labbra, e tanto meno capace di ridere. Ora, naturalmente, egli rifiutò lo champagne, con un fremito percettibile. Curnow fu così cortese, o così contento, da non insistere.
L’ingegnere era deciso, a quanto pareva, ad essere la vita e l’anima della comitiva. Pochi minuti dopo, tirò fuori una tastiera elettronica a due ottave e si esibì con rapide versioni della canzone «D’ye ken John Peci» suonata, in ordine successivo, da un pianoforte, da un trombone, da un violino, da un flauto e da un organo, con tanto di accompagnamento vocale. Risultò essere davvero molto bravo e ben presto Floyd si sorprese a cantare insieme agli altri. Era comunque una fortuna, pensò, che Curnow dovesse trascorrere la maggior parte del viaggio silenziosamente ibernato.
La musica cessò con una improvvisa e disperante dissonanza mentre i motori venivano accesi e la navetta si lanciava nel cielo. Floyd fu pervaso dalla familiare, ma sempre nuova, esultanza — la sensazione di una potenza sconfinata che lo portava in alto e lontano dalle preoccupazioni e dai doveri della Terra. Gli uomini l’avevano saputa più lunga di quanto si fossero resi conto situando la dimora degli dèi al di là della portata della gravità. Ora lui stava volando verso quel regno dell’assenza di peso; e, per il momento, avrebbe ignorato il fatto che lassù non esisteva la libertà, bensì la più grande responsabilità della sua carriera.
Mentre la spinta si intensificava, sentì sulle spalle il peso di interi mondi — ma lo gradì, come un Atlante che non si fosse ancora stancato del proprio fardello. Non cercò di pensare, ma si accontentò di assaporare l’esperienza. Anche se stava abbandonando la Terra per l’ultima volta, e doveva dire addio a tutto ciò che avesse mai amato, non provava alcuna tristezza. Il rombo che lo circondava era un peana di trionfo e spazzava via tutte le emozioni di minor conto.
Quasi si dispiacque quando cessò, anche se gradì la respirazione più facile e l’improvvisa sensazione di libertà. Quasi tutti gli altri passeggeri cominciarono a sganciare le cinture di sicurezza, accingendosi a godere i trenta minuti di gravità zero durante l’orbita di trasferimento, ma i pochi che, ovviamente, facevano per la prima volta quel viaggio rimasero ai loro posti cercando intorno a sé, ansiosi, con lo sguardo, gli inservienti di cabina.
«Parla il comandante. Ci troviamo adesso all’altezza di trecento chilometri e stiamo arrivando sopra la costa occidentale dell’Africa. Non vedrete un granché, in quanto laggiù è notte — quel bagliore davanti a noi è Sierra Leone — e sta imperversando una grande tempesta tropicale sul Golfo di Guinea. Guardate i lampi!
«Avremo l’aurora tra quindici minuti. Nel frattempo sto facendo inclinare la navetta affinché possiate vedere bene la fascia dei satelliti equatoriali. Il più luminoso quasi immediatamente sopra di noi è Antenna Farm Atlantic-1 dell’Intelsat. Si vede poi Intercosmos 2 a ovest… quella stella più fioca è Giove. E, guardando subito più in basso, vedrete una luce lampeggiante in movimento sullo sfondo stellato… quella è la nuova stazione spaziale cinese. Passiamo a cento chilometri di distanza, e non siamo vicini quanto basta per poter scorgere qualcosa a occhio nudo…»
Quali erano gli scopi dei cinesi? pensò Floyd, pigramente. Aveva esaminato le fotografie, scattate a distanza ravvicinata, della tozza struttura cilindrica con i suoi curiosi rigonfiamenti, e non vedeva alcun motivo di credere alle voci allarmistiche secondo le quali si trattava di una fortezza munita di laser. Ma, poiché l’Accademia della Scienza di Beijing aveva ignorato le ripetute richieste di ispezione da parte del Comitato per lo Spazio dell’ONU, i cinesi potevano incolpare soltanto se stessi di una propaganda così ostile.
* * *
L’astronave Cosmonauta Alexei Leonov non era un esempio di bellezza; ma ben poche navi spaziali lo erano. Un giorno, forse, il genere umano avrebbe creato una nuova estetica; sarebbero potute sorgere generazioni di artisti che non avrebbero basato i loro ideali sulle forme naturali della Terra, modellate dal vento e dall’acqua. Lo spazio stesso era spesso un luogo di sconvolgente bellezza; sfortunatamente, i veicoli creati dall’uomo non riuscivano ancora a dimostrarsene all’altezza.
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