Clifford Simak - Camminavano come noi

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Camminavano come noi: краткое содержание, описание и аннотация

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La crisi degli alloggi, che deve essere molto sentita anche negli Stati Uniti, ha probabilmente ispirato a Clifford Simak questo suo recentissimo libro, dove si dimostra come la sempre più difficile situazione in cui si trovano gli abitanti delle moderne metropoli possa avere, in realtà, un’origine extraterrestre, possa dipendere dalle oscure manovre di una razza d’invasori spaziali. E che l’umanità debba infine la sua salvezza non alla propria intelligenza o alle proprie armi, ma a un’altra «razza», tra le meno nobili del nostro pianeta, non è che una delle molte trovate di questo ironico e movimentato romanzo.

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Attesi ancora un po’.

La stanza cominciava ad apparirmi come nient’altro che una stanza.

L’attraversai in punta di piedi, passai nell’ingresso. Vidi la cucina, la sala da pranzo, e uno studio dove le scaffalature, vuote di libri, sembravano la risata muta di un vecchio sdentato.

Non trovai niente di sospetto.

La polvere si era accumulata sul pavimento, e io vi lasciavo le orme dei miei passi; il mobilio era tutto rovinato, l’aria sapeva di stantio. Aveva tutte le caratteristiche di una casa abbandonata, i cui abitanti se ne fossero andati per non tornare mai più.

Ero stato uno stupido a venire qui, mi dissi. Mi ero lasciato trascinare dall’immaginazione. Comunque, già che c’ero, meglio approfittarne. Per quanto fosse stata un’idea stupida, a questo punto diventava assurdo non dare un’occhiata anche al resto, al piano di sopra e allo scantinato.

Tornai all’ingresso e cominciai a salire la scalinata, una di quelle a spirale, dalla ringhiera luccicante.

Avevo appena fatto tre gradini che una voce mi fermò.

— Signor Graves… — disse.

Una voce pastosa, da persona colta, che mi si era rivolta in tono tranquillo. Pur con un accento interrogativo, suonava colloquiale. L’effetto, in ogni caso, fu che mi si rizzarono i capelli.

Mi voltai di scatto, cercando di estrarre la pistola dalla tasca del cappotto.

Mi ero girato solo a metà, quando la voce parlò di nuovo.

— Sono Atwood — disse. — Purtroppo il campanello è rotto.

— Ho anche bussato — dissi.

— Non l’ho sentita. Ero da basso a lavorare.

Ora riuscivo a vederlo, una sagoma oscura nell’atrio. Lasciai riscivolare la pistola in tasca.

— Potremmo andare giù — disse Atwood. — Qui non è il posto adatto per conversare comodamente.

— Come vuole — risposi.

Scesi i pochi gradini che avevo salito, e lui mi guidò verso la porta del seminterrato, attraverso la sala d’ingresso. La scala era illuminata e ora potevo vedere bene il padrone di casa. Era un comunissimo uomo d’affari, dall’aria tranquilla e rasserenante.

— Mi piace lavorare laggiù — disse Atwood, scendendo i gradini come se pattinasse. — Il vecchio proprietario aveva allestito quel locale per i suoi svaghi, e io lo trovo molto più confortevole del resto della casa. Forse perché l’edificio è vecchio, mentre quella stanza è stata aggiunta in epoca più recente.

Al termine della scala, aggirato un angolo, ci trovammo nel locale decantato.

Era grande, lungo quanto tutto il piano, con un caminetto a ognuna delle due estremità e alcuni mobili disposti disordinatamente sul pavimento di mattoni rossi. Contro una parete c’era un tavolo ingombro di carte. Di fronte al tavolo, nella parete che dava sull’esterno, si apriva un foro rotondo, della misura di una palla da bowling. Dal foro giungeva una corrente di aria fredda che mi colpiva alle caviglie. Nell’aria, una lieve traccia di quell’odore di dopobarba.

Con la coda dell’occhio mi accorsi che Atwood mi osservava, e tentai di mantenere la massima calma. Non per mettermi una maschera rigida, ma per assumere quello che presumevo fosse il mio aspetto normale. Forse ci riuscii, perché Atwood non sorrise ironicamente, come avrebbe fatto se avessi manifestato segni di imbarazzo o di paura.

— Ha ragione — dissi. — Questa stanza è molto confortevole.

Lo dissi tanto per dire qualcosa. Non era affatto confortevole. C’era la stessa polvere che c’era di sopra, e tante cose disseminate in un disordine indescrivibile.

— Si vuole accomodare? — disse Atwood, indicando una poltrona dai cuscini soffici, disposta obliquamente rispetto al tavolo.

Camminando per raggiungere la poltrona, sentivo qualcosa frusciare sul pavimento al mio passaggio. Guardai a terra e vidi che avevo calpestato un ampio foglio di plastica trasparente, che giaceva spiegazzato a terra.

— L’ha lasciato il vecchio proprietario — spiegò con noncuranza Atwood. — Un giorno o l’altro dovrò fare una pulizia radicale, in questo posto. Sedetti.

— Vuole togliere il cappotto? — chiese Atwood.

— No, grazie. Preferisco tenerlo. C’è un po’ di corrente quaggiù.

Osservai il suo volto, che rimase impassibile.

— Lei afferra rapidamente — disse Atwood, ma senza toni di minaccia nella voce. — Forse un po’ troppo rapidamente.

Non dissi nulla. Lui aggiunse: — Tuttavia sono lieto che sia venuto. Difficilmente ci si imbatte in uomini che abbiano la sua perspicacia.

Lo provocai: — Nel senso che sta per offrirmi un posto nella sua organizzazione?

— Ci avevo pensato, infatti.

Scossi la testa. — Non credo che lei abbia bisogno di me. Se l’è cavata benissimo da solo, a comprare la città.

— La città! — esclamò Atwood, in tono offeso.

Annuii.

Lui venne a sedersi di fronte a me, con calma. — Vedo che non ha capito — aggiunse. — Devo fornirle dei chiarimenti.

— Sono qui per questo — dissi.

Atwood si protese verso di me. — Non si tratta della città — disse garbatamente, ma con fermezza. — Non deve sottovalutarmi. Molto di più di una città, signor Graves. Credo di poterlo dire senza timore, ora che nessuno può fermarmi. Sto comprando il pianeta.

17

Esistono idee così mostruose e perverse che occorre un po’ di tempo per assimilarle. Una di queste, è che qualcuno voglia comprare il mondo. Volerlo conquistare, be’, è da sempre il sogno di molti. Distruggerlo, anche questo è comprensibile: molti pazzi criminali hanno adottato questa minaccia come appendice, se non come spina dorsale, della loro politica estera.

Ma comprarlo!

In primo luogo, era impossibile, perché nessuno possedeva la cifra occorrente. E poi, anche avendola, era ugualmente una follia, perché che se ne faceva uno della Terra, una volta acquistata? Terzo, era immorale. Un pervertimento delle sane tradizioni, perché un onesto affarista non elimina tutti i suoi concorrenti. Li può assorbire, o ridurre sotto il proprio controllo, ma non li stermina.

Atwood stava seduto sull’orlo della sua poltrona, come un falco in attesa. Doveva aver intuito qualche riserva mentale nel mio silenzio.

— È tutto perfettamente legale — disse.

— Immagino di sì — dissi. Tuttavia sapevo che non era vero. Se solo riuscivo a mettere insieme le parole, avrei potuto spiegargli cosa ci fosse di sbagliato.

— Noi agiamo nel rispetto delle istituzioni umane — riprese Atwood. — Nel rispetto delle vostre leggi e delle vostre norme. Dirò di più, anche delle vostre abitudini. Non ne abbiamo mai violata neppure una. E le dico francamente, caro amico, che non è facile.

Tentai di parlare, ma le parole mi soffocarono in gola. Del resto, non avrei saputo bene cosa dire.

— Non c’è niente di irregolare — continuò Atwood. — Inclusi i nostri capitali e i titoli.

— Un momento — intervenni. — Come fate a possedere tanto denaro?

Ma l’idea che mi assillava non riguardava i soldi. Ciò che mi tambureggiava nella testa era molto più importante. Atwood aveva sempre parlato al plurale: “agiamo”, “non abbiamo violato”, “i nostri capitali”. Mentre con l’aggettivo “vostro” si riferiva a tutto ciò che non faceva parte del suo mondo e di quello della sua organizzazione. Infine, il modo in cui sottolineava che era tutto regolare.

Mi sentivo il cervello diviso nettamente in due. Una parte era terrorizzata. L’altra mi invitava a ragionare, perché l’idea era troppo mostruosa per prenderla in seria considerazione.

Adesso Atwood sogghignava, e mi prese una furia improvvisa. Le grida che emetteva una metà del mio cervello prevalsero sulla ragione, e mi alzai dalla poltrona, tentando di estrarre la pistola.

Volevo ucciderlo all’istante, senza pietà, senza pensarci. A bruciapelo. Come schiacciare un serpente o un ragno, perché altro non era.

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