Clifford Simak - Camminavano come noi

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Camminavano come noi: краткое содержание, описание и аннотация

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La crisi degli alloggi, che deve essere molto sentita anche negli Stati Uniti, ha probabilmente ispirato a Clifford Simak questo suo recentissimo libro, dove si dimostra come la sempre più difficile situazione in cui si trovano gli abitanti delle moderne metropoli possa avere, in realtà, un’origine extraterrestre, possa dipendere dalle oscure manovre di una razza d’invasori spaziali. E che l’umanità debba infine la sua salvezza non alla propria intelligenza o alle proprie armi, ma a un’altra «razza», tra le meno nobili del nostro pianeta, non è che una delle molte trovate di questo ironico e movimentato romanzo.

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C’erano solo il lustrascarpe, che sonnecchiava su una seggiola addossata al muro, e il tabaccaio, che leggeva un giornale appoggiato al banco. Il tabaccaio alzò la testa per guardarmi. Il lustrascarpe saltò in piedi al mio passaggio. Ma prima che si rendessero ben conto della mia presenza, avevo già imboccato la porta girevole, uscendo nella strada. Il viavai era in aumento, a causa della gente che due sere a settimana scendeva in centro a fare shopping.

Smisi di correre. All’angolo mi fermai a guardare il McCandless Building, quella vecchia costruzione annerita dagli anni, da troppi anni, e che sarebbe scomparsa tra poco per effetto del piano regolatore. A guardarne la facciata, non si vedeva niente di misterioso, niente di sinistro. Eppure tremavo, come se una corrente gelida mi avesse attraversato l’anima.

Avevo bisogno di qualcosa che mi rimettesse in sesto, perciò, fatto ancora qualche metro di strada, entrai in un bar. C’era parecchia gente, e nella penombra, in fondo alla sala, qualcuno suonava il pianoforte. Be’, “suonare” è un termine eccessivo. Diciamo che batteva sui tasti, accennando talvolta a qualche canzone in voga.

Andai al fondo del locale, dov’era meno affollato. Mi arrampicai su uno sgabello del banco e ordinai: — Uno scotch con ghiaccio. Doppio.

— Che marca? — chiese il cameriere. Glielo dissi.

Lui prese un bicchiere e alcuni cubetti di ghiaccio. Dalla mensola alle sue spalle tirò giù una bottiglia.

In quel momento, un’altra persona venne a sedersi sullo sgabello vicino al mio.

— Buonasera, signorina — disse il barista. — In cosa posso servirla?

— Un Manhattan, per favore.

Mi voltai, attratto dal suono accattivante della voce. E dal suo aspetto.

Era una magnifica creatura, una di quelle in cui la bellezza non azzera la personalità. Mi guardò con occhi di ghiaccio.

— Ci siamo già incontrati da qualche parte? — mi chiese.

— Direi di sì — risposi.

Era la bionda che avevo tirato fuori dalla scatola di scarpe, ora enormemente cresciuta, e vestita.

12

Dopo aver servito me, il barista cominciò a preparare il Manhattan con aria annoiata. Ne aveva già visti fin troppi di approcci.

— E non molto tempo fa — riprese la ragazza.

— No, infatti — osservai. — Anzi, proprio poco fa. In un ufficio.

Anche se capiva di cosa parlavo, non lo lasciò trapelare. Era troppo controllata, troppo sicura di sé. Aprì il portasigarette, ne scelse una, la portò alle labbra e attese.

— Spiacente — dissi — non fumo. Non ho da accendere.

Frugò nella borsa, tirò fuori un accendisigari e me lo porse. L’accesi. Lei si chinò per avvicinare la sigaretta. Dalla sua pelle veniva un odore di violetta, credo. Comunque un profumo floreale.

Improvvisamente mi venne alla mente un particolare che avrei dovuto tenere in considerazione fin dall’inizio. Bennett odorava in quel modo non perché usasse una lozione da barba, ma perché non la usava. Era l’odore specifico di quel tipo di creatura.

La ragazza si raddrizzò e inalò la prima boccata di fumo, emettendola poi attraverso le narici in modo molto grazioso. Le restituii l’accendino, che ripose nella borsa.

— Grazie — disse.

Il barista le porse il Manhattan, una cosa ben fatta, con la ciliegina.

Misi una banconota davanti al cameriere.

— Anche per la signorina — dissi.

— Ma… — protestò la ragazza.

— Non rifiuti — la pregai. — È una mia passione, pagare da bere alle ragazze.

Non reagì. Mi osservò di nuovo, ancora un po’ freddamente.

— Mai fumato? — mi chiese.

Feci segno di no con la testa.

— Per non sciupare il senso dell’olfatto? — chiese ancora.

— Cosa?

— L’odorato, intendo. Pensavo svolgesse un’attività per la quale è necessario un buon fiuto.

— Non ci avevo mai pensato — risposi — ma forse ha ragione lei.

Mi osservò con attenzione, mentre alzava il bicchiere.

— Sarebbe disposto a farsi comprare? — chiese, con la massima naturalezza.

Non riuscii ad articolare parola. Rimasi a guardarla fisso. Non scherzava affatto.

— Potremmo cominciare con un’offerta di un milione — disse. — Trattabile, a salire.

Mi venne una specie di colpo. — Vuole l’anima — chiesi — o solo il corpo? Per l’anima al seguito, dovrà aumentare il prezzo.

— No, quella se la può tenere — disse.

— È lei a fare l’offerta?

Scosse la testa. — No. Non saprei che farmene di lei.

— Allora agisce per conto di altri? Di quelli che comprano tutto, magari? Che comprano i negozi per chiuderli. O un’intera città.

— Vedo che afferra — disse.

— Il denaro non è tutto — obiettai. — Ci sono anche altre cose.

— Se vuole, possiamo prendere in esame tutte queste altre cose.

Depose il bicchiere e tolse dalla borsetta un biglietto da visita, consegnandomelo.

— Se cambia idea, saprà dove trovarmi — aggiunse. — L’offerta rimane valida.

Prima che potessi dirle qualcosa, era scesa dallo sgabello ed era uscita mescolandosi alla folla.

Il barista guardò con occhi inespressivi i bicchieri ancora pieni a metà.

— Qualcosa non andava nel servizio? — mi chiese.

— No, tutto a posto — risposi.

Avevo posato il biglietto sul banco, capovolto. Lo girai e lo esposi alla scarsa luce che c’era in quel punto. Ma immaginavo già cosa vi fosse stampato. C’era solo una piccola differenza: invece della dicitura “Amministrazione di Immobili” c’era scritto “Trattiamo qualunque affare”.

Rimasi seduto, freddo e pensieroso, appollaiato sullo sgabello. Il posto mi appariva indistinto, come annebbiato; tutt’attorno il mormorio sconnesso delle chiacchiere dei clienti aveva un suono quasi inumano, sembrava il borbottio di un mostro o di un povero idiota. E attraverso quello, sopra quel brusio, tra un discorso e l’altro si sentiva, quasi derisorio, il suono del pianoforte.

Ingollai lo scotch e rimasi seduto, tenendo il bicchiere nel cavo della mano. Cercavo il barista per chiedergliene un altro, ma era occupato con altri clienti.

Un tale venne ad appoggiarsi al banco, e con il gomito rovesciò il bicchiere di Manhattan. Il liquore si sparse, come una macchia di olio sporco, sul legno lustro del banco; il gambo del bicchiere si ruppe all’altezza della giuntura con il calice, e il calice andò in frantumi. La ciliegia rotolò fino a fermarsi contro l’orlo del banco.

— Mi spiace — disse lo sconosciuto. — Sono uno sbadato! Gliene pago un altro.

— Non importa — replicai. — Tanto lei non tornerà.

Scesi dallo sgabello e mi diressi alla porta.

Passava un taxi. Lo presi al volo.

13

Il cielo era diventato scuro e nelle strade erano già state accese le luci. L’orologio di una banca segnava le sei e mezzo. Dovevo affrettarmi, se volevo arrivare in tempo all’appuntamento che avevo con Joy per le sette, o l’avrei trovata furibonda.

— È una bella notte per la caccia al procione — disse il taxista. — Tra poco sorgerà la luna, non fa freddo e mi piacerebbe andarci, ma stasera ho da lavorare. Siamo io e il mio compare, che ha il cane. Sa, quelli marroni e neri. Lui è uno che parla, parla, che è un piacere.

— Va a caccia di procioni? — chiesi. Non me ne importava granché, ma era chiaro che il taxista voleva fare conversazione.

Infatti non aspettava altro.

— Fin da ragazzo! — esclamò. — Ho cominciato con mio padre, quando avevo nove o dieci anni, poi è una cosa che ti resta nel sangue. Arriva una notte come questa, e non resisti più. C’è che in questo periodo dell’anno il bosco ha tutto un suo profumo, e il vento che passa tra le foglie, che stanno per staccarsi, fa come una musica. E tu senti che l’inverno è dietro l’angolo.

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