Arthur Clarke - Culla

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Un missile top secret che svanisce in volo. Un tridente d’oro che cambia sorprendentemente forma. Una caverna subacquea custodita da balene... Qualcosa si nasconde nel fondo marino al largo di Key West, un mistero in parte umano ma nello stesso tempo terribilmente alieno. Il suo potere è immenso e terrificante e potrebbe distruggere ogni forma di vita sulla Terra. Ma qualcuno ha deciso di scoprire il terribile segreto. E da quel momento non esiste più alcuna certezza, nessun luogo sicuro in cui nascondersi, nessuna alleanza su cui poter contare. Intorno a una giornalista bella e ambiziosa, disposta a correre qualsiasi rischio pur di arrivare alla verità, si stringe la rete di una cospirazione implacabile: spie militari, killer spietati, ma soprattutto una forza estranea e sconosciuta, le cui mosse nessuna mente umana potrebbe comprendere e prevedere... L’inesauribile immaginazione di Arthur C. Clarke spazia in questo nuovo romanzo dagli enigmi irrisolti del passato alle soglie indecifrabili del futuro, dagli infiniti oceani di stelle all’imperscrutabile fondo del mare. In un appassionante viaggio ai confini della realtà, Culla esplora i percorsi dell’avventura e dell’ignoto.

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Durante l’estate del ’68, immediatamente prima dell’iscrizione ad Annapolis, Vernon andò a lavorare nei campi dello zio. A meno di duecento chilometri di distanza scoppiarono tumulti in occasione della Convenzione Democratica di Chicago, ma, a Columbus, lui passava le serate con Betty, a conversare con gli amici e a bere birra di erbe al drive-in A W. Di quando in quando lui e Betty giocavano a minigolf o a canasta coi signori Winters, felici e fieri di avere dei «bravi ragazzi a posto», non hippy né drogati. L’ultima estate di Vernon nell’Indiana fu insomma nel complesso, ordinata, impastoiata, e assai piacevole.

Ad Annapolis, Vernon si dimostrò, come previsto, uno studente modello. Sgobbò sui libri, ubbidì a tutte le norme del regolamento, imparò quanto gli insegnavano i professori, e sognò di comandare una portaerei o un sottomarino nucleare. In quanto a uscire a divertirsi, non gli andava: i ragazzi provenienti dalle metropoli erano infatti troppo sofisticati per lui, e quel loro parlare di sesso come niente fosse lo metteva sovente a disagio. Perché lui era vergine, e non si vergognava di esserlo — anche se giudicava che non fosse il caso di sbandierarlo fra i compagni dell’Accademia Navale. Usciva con ragazze un paio di volte al mese, quando l’occasione lo richiedesse, ma senza far nulla di speciale. Una volta, all’inizio del terz’anno di corso, gli capitò di incontrare, a un appuntamento a sorpresa, Joanna Carr, capo della tifoseria dell’università del Maryland, e con lei uscì poi diverse volte. Vivace, graziosa, allegra e moderna, Joanna sapeva tirargli fuori il meglio di sé, farlo ridere e metterlo addirittura a suo agio. Fu con lei che trascorse il fine settimana della partita Esercito-Marina a Filadelfia.

(Durante l’intera permanenza all’Accademia, Vernon passò ogni estate e ogni Natale nell’Indiana, frequentando sempre Betty Pendleton. Diplomatasi al liceo, Betty si iscrisse alla facoltà di pedagogia di una vicina università statale. Una o due volte l’anno, in occasioni speciali tipo l’anniversario del loro primo bacio o la notte di Capodanno, lei e lui festeggiavano, in certo qual modo, il loro star insieme col permettersi un qualcosa di più intimo — tipo carezze limitate, e solo da sopra gl’indumenti, o baci da distesi. Né mai alcuno dei due suggerì la minima variazione a questa routine.)

Per compagni di quel fine settimana, Vernon e Joanna ebbero un altro allievo dell’Accademia, Duane Eller (il conoscente più intimo di Vernon, giacché di amico non si poteva ancora parlare), e l’amica di questo, Edith, una ragazza della Columbia ultrachiassosa e invadente. Vernon, che non aveva mai passato molto tempo vicino a ragazze newyorkesi, la trovò disgustosa al massimo. Non contenta di essere accesamente anti-Nixon e anti-Vietnam, costei sembrava infatti essere anche antimilitarista, e ciò a onta del fatto che il suo compagno di fine settimana aveva appunto abbracciato la carriera militare.

Il fine settimana era stato progettato secondo tutte le norme del decoro, anzi decisamente all’antica, visto che si era nel 1970 e che i rapporti sessuali casuali non erano insoliti nei campus universitari. Vernon e Duane avrebbero cioè diviso una stanza di motel, e le due ragazze un’altra. La sera prima della partita, mentre cenavano a base di pizza, Edith insultò a più riprese Joanna e Vernon («Signorina Malmostosa — Forza, squadra, forza» e «Avanti, soldati di Cristo: Dio è con noi»), senza che Duane le obiettasse nulla. Vernon, allora, visto che Joanna si mostrava risentita degli insulti, le chiese se non preferisse dividere la camera con lui, anziché con Edith, come stabilito, e lei accettò senz’altro.

Nelle quattro o cinque uscite precedenti, Vernon non aveva mai fatto avances sessuali a Joanna. Era stato premuroso, le aveva dato un paio di baci della buonanotte e tenuto la mano per gran parte della serata l’ultima volta che s’erano visti: tutto all’insegna del massimo decoro, insomma. Vere occasioni d’intimità non c’erano state mai, però, sicché Joanna non sapeva che cosa aspettarsi. Il bell’allievo dell’Indiana le piaceva, e un paio di volte aveva pensato alla possibilità di una trasformazione in qualcosa di serio del rapporto esistente con lui; ma, “superspeciale”, lui per lei non era ancora.

Subito dopo lo scambio di camera (reso più difficile da un’Edith ubriaca che imbarazzò la coppia e se stessa con salaci commenti), Vernon si scusò meticolosamente con Joanna per l’offesa e le disse che, se preferiva, lui avrebbe dormito in macchina. La camera era quella tipica, a due letti, degli Holiday Inn. «Oh, via,» aveva risposto lei, ridendo «lo so che non è stato un trucchetto tuo. E poi, se avrò bisogno di protezione, potrò sempre ordinarti di andare nel tuo letto.»

La prima notte la passarono a guardare la televisione e a bere birra, sentendosi entrambi un po’ imbarazzati. Al momento di coricarsi, si scambiarono un paio di baci quasi appassionati, risero insieme, e andarono ciascuno nel proprio letto. La sera seguente rientrarono poco prima di mezzanotte, al termine del ballo dato dall’Accademia Navale, dopo la partita, in un albergo del centro di Filadelfia. Si misero in jeans, e, mentre Vernon stava lavandosi i denti, bussarono alla porta. Andò ad aprire Joanna. Era Duane Eller, ghigno ebete sulla faccia, un oggettino in pugno. «’Sta roba è proprio uno sballo» disse, ficcando una sigaretta alla marijuana in mano a Joanna. «Provala, e mi saprai dire.» Dopodiché si ritirò, sorridendo come uno spiritato.

Joanna era un tipo sveglio, ma mai avrebbe immaginato che il suo compagno non avesse, non che fumato, anche solo visto uno spinello. Lei ne aveva fumati forse una dozzina di volte in quattro anni, a cominciare dal terzo anno di liceo. Era una cosa che le piaceva fare nella situazione e con la compagnia giuste, e che evitava quando non fosse in condizione di dominare l’ambiente circostante. In quel momento, poiché il fine settimana con Vernon le era piaciuto, giudicò che lo spinello fosse il modo migliore per sciogliere un po’ il compagno.

In qualunque altra circostanza o quasi, Vernon avrebbe detto di no a qualsiasi offerta di marijuana, non solo perché contrario a ogni droga, ma anche per il terrore di venire in qualche modo scoperto e quindi espulso dall’Accademia. Ma come fare la stessa cosa con l’affascinante compagna, tipica capo-tifoseria americana del Maryland, che gli porgeva, lì nella stanza, lo spinello acceso? Joanna si accorse subito che lui era un neofita, e quindi gli insegnò tutta l’arte: come inalare e trattenere il fumo, come non indugiare nel passarla a lei, e finalmente come consumarla sino in fondo usando una graffa (nella fattispecie, una sua forcina). Vernon, che si era aspettato di provare una sensazione di ebbrezza, fu stupito di provarne una di estrema lucidità. E più stupito fu di sentirsi recitare delle poesie di E.E. Cummings che stava studiando nel corso di Lettere. Poi lui e Joanna cominciarono a ridere. A ridere di tutto: di Edith, del football, dell’Accademia Navale, dei rispettivi genitori, perfino del Vietnam. E risero fin quasi alle lacrime.

A questo punto, furono assaliti da un appetito famelico. Allora s’infilarono i giacconi e uscirono nella fredda aria decembrina alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Disceso a braccetto il viale alberato di periferia, trovarono, a poco più di cinquecento metri dal motel, un negozio ancora aperto di alimenti in scatola, dove comprarono Coca-Cola, patatine, Fritos e, con gran stupore di Vernon, un pacchetto di Ding Dong. Joanna aprì il sacchetto di patatine nel negozio stesso, ne infilò una in bocca a Yernon, e fece «Mmm!» con lui mentre il commesso rideva con loro.

Vernon non riusciva a credere che delle patatine potessero essere tanto buone, e mangiò l’intero sacchetto durante il ritorno al motel. Alla fine, gli venne spontaneo di cantare, e si lanciò nel Maxwell’s Silver Hammer dei Beatles. Joanna, accompagnandolo vigorosamente nel Bang, bang, Maxwell’s Silver Hammer came down upon his bead… , sollevò di piatto il pugno a colpirlo per scherzo sulla testa. Baldanzoso, liberato, la sensazione di conoscere Joanna da sempre, Vernon le mise il braccio attorno alla schiena e, nell’imboccare il vialetto del motel, la baciò ostentatamente.

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