Secondo Jerome tutto quel fiume di parole non era altro che un “bla-bla” semantico, e dopo due ore rimase più che mai del parere che nessuno era riuscito a dare una spiegazione logica del fenomeno. Tentò un approccio diverso cercando le dichiarazioni in merito di scienziati qualificati, per scoprire che quei pochi che si erano interessati all’argomento negavano l’esistenza del fenomeno. Non ne fu deluso, ricordando che lui stesso era stato dogmatico in merito fino a dodici ore prima, tuttavia, in vista dell’articolo, gli avrebbe fatto comodo un parere autorevole. Fate un sacco di citazioni insisteva sempre Anne, probabilmente convinta che la parola di un cronista aveva poco valore senza l’appoggio di un esperto qualificato. Dopo averci pensato sopra un po’, gli venne in mente che l’aveva colpito il modo di pensare equilibrato e l’asciutto umorismo di uno scrittore, John Sladek, che nel 1994 aveva scritto un libro pieno di buonsenso sui fenomeni paranormali, intitolato Superstar psichiche.
Ne aveva letto il condensato nel pomeriggio senza trovarvi citazioni relative alla CUS, ma questo non significava che Sladek non avesse idee in merito. Senza frapporre indugi, si servì del computer per ottenere l’indirizzo e il numero telefonico di Sladek, e scoprì che abitava a New York. Prese il telefono e formò il numero. Sladek rispose subito.
«Scusate se vi disturbo a quest’ora, signor Sladek» disse. «Mi chiamo Rayner Jerome, e…»
«Non sarete per caso un esattore?» lo interruppe Sladek.
«No, sono un cronista del Whiteford Examiner , e vorrei la vostra opinione su un argomento che mi interessa, perché mi ha impressionato favorevolmente il vostro libro sul paranormale.»
«Grazie. Mi fa piacere sentire le lodi di uno dei miei lettori… chissà chi è l’altro?»
Jerome fece una risatina d’obbligo. «Si tratta di un singolare caso di autocombustione umana. So che non ne avete parlato nel vostro libro, e mi chiedevo se ci credete o meno.»
«Oh, non saprei» rispose Sladek. «Forse la gente scoppia e si riduce in cenere.»
«Si tratta di un’inchiesta seria» precisò Jerome, che cominciava a irritarsi per la leggerezza dello scrittore. «Non avete qualche parere sull’autocombustione spontanea?»
«Be’, credo che si tratti di un caso che le compagnie d’assicurazioni rifiutano di prendere in considerazione.»
Jerome sospirò forte, perché l’altro lo sentisse. «Grazie per il vostro aiuto, signor Sladek… e scusate il disturbo.»
«Non c’è di che, signor Jerome. Mi spiace di non potervi dire con certezza che l’autocombustione spontanea è provocata dagli specchi ustori.»
Jerome sbatté il ricevitore sulla forcella, deciso a non aver più niente a che fare con gli scrittori, e rimase a fissare aggrondato la parete di fronte. Consapevole del pericolo di diventare fissato, convinto che era meglio bere un bicchiere di vino per rilassarsi, e poi andare a letto, accantonò l’idea di cercare un qualche legame fra le vittime della CUS prima della morte. Doveva esserci un fattore comune — di questo era convinto — ma i dati di cui disponeva non lo facevano risaltare, o forse si trattava di un particolare apparentemente insignificante. Prese il notes e scrisse quanto c’era di comune dopo la morte delle vittime. L’elenco risultò breve, composto di tre soli paragrafi.
1. Scarsi danni al materiale combustibile in prossimità delle vittime. Spesso anche gli abiti o coperte e materassi sono intatti, sebbene il corpo debba aver sviluppato una temperatura di almeno 3.000°. (È questo soprattutto che mi sta sul gozzo)
2. Si verifica sempre una quasi completa distruzione del tronco, mentre — per motivi ignoti — le estremità spesso non subiscono gravi ustioni. Se la combustione è provocata da una condizione fisica, perché mani e piedi vengono risparmiati?
3. Si nota in quasi tutti i casi assenza di odore — incredibile date le circostanze — o al più si parla di un sentore dolciastro. (Starzynski costituisce un esempio perfetto). Jerome rilesse quello che aveva scritto, tentato dall’idea che la chiave del mistero della CUS si trovasse nell’elenco, se solo fosse riuscito a scovarla. Sapeva che molti altri prima di lui avevano tentato invano di risolvere il problema, e molti erano meglio equipaggiati e disposti a dedicare interi anni nelle ricerche; era a dir poco presuntuoso da parte sua sperare di trovar la soluzione dopo un solo giorno di lavoro. Ma esiste un certo egotismo che spinge fuori dal gregge uomini qualunque, speranzosi di dare il proprio nome a un teorema o a una nuova stella; e nel silenzio della mezzanotte sembrava possibile a Jerome che gli venisse quel lampo di genio, quella sensazione pre-orgasmica nel cervello e nei visceri che trasforma d’incanto oscuri problemi in trasparenti diamanti.
È rischioso , pensò. Sono troppo stanco per pensare con discernimento, e se lascio che mi si fissi in testa un’idea dormirò poco e avrò un sonno agitato e pieno di incubi.
Come previsto, l’ammonimento fu accantonato da quella parte del cervello che si era sempre rifiutata di rinunciare a trovare la soluzione di un enigma. Rilesse per un’ora gli appunti che aveva scritto sui casi più significativi, e quando non riuscì più a mettere a fuoco le parole perché aveva gli occhi troppo stanchi, riprese cocciutamente a esaminare le fotografie.
La stanchezza si era impossessata di lui rendendolo più vulnerabile, impedendogli di osservare con distacco quella successione di immagini da crematorio, e poco a poco finì col scivolare in un universo macabro e orribile, spietatamente dettagliato composto in massima parte di ceneri organiche. Piedi umani che finivano in moncherini carbonizzati erano oggetti commoventi e grotteschi, ma adatti al paesaggio alla Dalì nel quale si era addentrato. Si profilavano come assurdi castelli su pianure di cenere cosparse di relitti di vite passate: occhiali, monete, limette, accendini, tazze frantumate, residui di cibo. Le vittime dell’autocombustione spontanea non venivano ricordate per cose e fatti importanti, ma per le piccole cose insignificanti su cui la macchina fotografica aveva puntato con insistenza l’obiettivo.
Alle due e mezzo finalmente Jerome si convinse che non sarebbe stato folgorato dalla Verità, che era destinato a restare nel gregge degli uomini comuni, e se ne andò a letto. Si appisolò quasi subito ma, come aveva temuto, c’erano incubi all’agguato e si svegliò dopo pochi minuti con la deprimente consapevolezza che per il resto della notte non sarebbe riuscito a prendere sonno. Nomi, date e luoghi gli ribollivano in testa, e quando gli capitava per caso di trovare una rima, i ritornelli si ripetevano con ossessionante monotonia. Tentò di rilassarsi per trarre almeno beneficio dal riposo fisico, ma ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva le fotografie. In passato era stato orgoglioso della sua memoria visiva, invece adesso si era trasformata in una spaventosa schiavitù che lo faceva rattrappire e contorcere sotto il bombardamento delle immagini.
Era passata forse un’ora quando, inesplicabilmente, una delle fotografie rimase fissa negli occhi della sua mente. Nello stato di semitrance in cui si trovava ricordò subito che quella foto mostrava i resti di Betty Ramon, un’anziana vedova morta bruciata nel suo appartamento di Great Falls, nel Montana. L’immagine era composta dai soliti elementi, dal piede che le fiamme avevano risparmiato al foro irregolare coi bordi anneriti sul pavimento di legno. Si trattava di uno dei tanti esempi della categoria, non più orripilante né sordido nei particolari di centinaia d’altri, e tuttavia Jerome si sentiva in preda a un senso di premonizione che finì a svegliarlo del tutto.
Si alzò a sedere al buio chiedendosi se non fosse vittima di un inganno, dovuto al suo stato di eccitazione febbrile, ma poi pensò che non aveva niente da perdere se tornava a consultare il computer. Andò zoppicando nel soggiorno, si appollaiò precariamente in cima allo schienale della poltrona e fece comparire sullo schermo l’immagine dei resti di Betty Ramon. L’immagine era così nitida che aveva l’impressione di guardare attraverso una finestra in una camera illuminata a giorno. Jerome la studiò a lungo, col cuore che batteva forte, finché il suo sguardo non fu attratto da un particolare nell’angolo inferiore sinistro. In quel punto, mimetizzata dal disegno a ghirlande di rose del tappeto, c’era una scatoletta a forma di cuore. La fissò, intuendo che doveva già averla inconsciamente notata quando aveva esaminato prima la foto, senza però capire subito perché si sentisse tanto eccitato.
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