— Danesi? — mormorò Shavkun, indicando la bandiera dipinta sulla torretta di comando. — È danese, no? — Zlotnikov annuì, in silenzio. Poi si accorse che la sua mascella pendeva, inerte, e si affrettò a richiudere la bocca. La radio frusciò, sibilò e al di sopra della musica si udì una voce forte che parlava in pessimo russo.
— Hello, Vostok IV , mi sentite? Qui, Blaeksprutten. Siamo atterrati vicino a voi. Mi sentite? Passo.
Nartov fissò il microfono che stringeva in mano e fece l’atto di girare l’interruttore. Poi si trattenne, scosse la testa come per schiarirsi le idee e allungò una mano verso i comandi della radio. Solo dopo aver ridotto al minimo l’erogazione di energia, aprì il trasmettitore. Per un senso istintivo di difesa, preferiva che Mosca non ascoltasse il dialogo.
— Qui Vostok IV. Colonnello Nartov. Chi parla? Chi siete? Che cosa fate qui… — Il colonnello si interruppe bruscamente, sentendo che stava per mettersi a balbettare.
A bordo del Blaeksprutten , Ove ascoltò e annuì. — Contatto stabilito — disse agli altri. — Meglio sistemare quella tenda mentre io li invito a venire quassù. — Accese di nuovo la radio. — Govoreetye ve po Angleeskee? — domandò.
— Sì, parlo inglese.
— Benissimo colonnello — disse Ove, passando con un certo sollievo a quella lingua. — Ho il piacere di comunicarvi che siamo venuti qui per riportarvi sulla Terra. Nella vostra trasmissione di pochi minuti fa avete affermato che state tutti bene. È vero?
— Certo, ma…
— Benissimo. Se volete infilarvi le tute spaziali…
— Sì, ma dovete dirmi…
— Prima la cosa più importante, colonnello, per favore. Pensate di potervi infilare la tuta spaziale e venire qui per un minuto? Verrei io, ma sfortunatamente non abbiamo scafandri. Spero che non vi spiaccia.
— Vengo immediatamente. — Il messaggio terminò in un tono deciso.
— Non si può dire che il colonnello avesse l’aria felice del tipo che sta per essere salvato — commentò Nils, infilando una corda negli anelli di una grossa incerata distesa sul ponte. Era grigia e sciupata dalle intemperie, con un forte odore di pesce che le aleggiava attorno, forse perché era stata riposta vicino a campioni di fauna sottomarina, nella stiva della Vitus Bering.
— Felice lo sarà senz’altro — replicò Ove, aiutando gli altri a sollevare la pesante incerata. — Ma credo che gli ci vorrà un po’ per abituarsi all’idea. Era nel bel mezzo di una specie di discorso di addio, quando lo abbiamo interrotto.
Infilarono le funi anche negli anelli fissati al soffitto e sollevarono la tela, formando così una barriera grinzosa che tagliava a metà la piccola cabina nascondendo alla vista l’unità Daleth e il generatore a fusione.
— Meglio non assicurare questo lembo — disse Ove. — Devo passare di lì per arrivare al compartimento macchine.
— Non mi sembra un riparo molto efficace — dichiarò Nils.
— Basterà — replicò Arnie. — Questi uomini sono degli ufficiali e si presume che siano anche gentiluomini… E noi stiamo salvandogli la vita. Non credo che ci procureranno fastidi.
— Penso proprio di no… — Nils guardò attraverso l’oblò. — Ehi, il loro boccaporto sta aprendosi… e arriva qualcuno. Probabilmente il colonnello.
Nartov aveva indossato la tuta spaziale con movimenti meccanici, ignorando le ipotesi eccitate degli altri due cosmonauti, poi si era levato in piedi, lasciando che loro gli controllassero e sigillassero lo scafandro. Ora, mentre percorreva a balzi gli ultimi metri sulla superficie della Luna, si stava completamente riprendendo: ciò che accadeva era senza dubbio reale. Non stavano più per morire. Lui avrebbe rivisto Mosca, sua moglie, la famiglia… Se quello strano veicolo era arrivato fin sulla Luna, poteva sicuramente tornare alla Terra. I particolari gli sarebbero stati spiegati in seguito; ora doveva preoccuparsi soprattutto di salvare la vita ai suoi uomini. Avanzò a testa alta verso il sottomarino, mentre la polvere e i sassolini sollevati dai suoi grossi stivali ricadevano immediatamente sulla superficie priva di atmosfera.
Lassù, dietro l’oblò rotondo, si scorgeva un uomo: portava un berretto a visiera, e indicava col dito verso il basso facendogli anche dei cenni col capo. Chi diavolo poteva essere?
Quando il colonnello si avvicinò, notò una scatola con un pesante coperchio, che era stata saldata frettolosamente allo scafo. Sopra stava scritto TENEØOH, in neri caratteri cirillici. Svitò la grossa vite che fermava il coperchio, aprì e prese il telefono che stava dentro. Premette con forza il microfono contro il casco, in modo che le vibrazioni della sua voce vi passassero attraverso; riusciva anche a capire l’uomo che stava all’altra estremità.
— Mi sentite, colonnello?
— Sì. — Il cavo era piuttosto lungo, e facendo un passo indietro Nartov, poté vedere l’interlocutore, dietro l’oblò.
— Bene. Sono il capitano Nils Hansen, delle Forze Aeree Danesi, nonché pilota senior della SAS. Vi presenterò gli altri quando salirete a bordo. Siete in grado di raggiungere quel ponte?
Il colonnello guardò in su, socchiudendo gli occhi per difendersi dal riflesso. — Ora no, ma possiamo assicurare una fune, lavorando tutti insieme. O qualcosa del genere. La gravità è minima.
— Non dovrebbe essere difficile. Una volta sul ponte, vedrete un boccaporto non sigillato in cima alla torretta di comando. La torretta è grande appena quanto basta a contenere tre uomini, e dovrete entrare tutti in una volta, poiché non è una vera e propria camera stagna. Entrate e sigillate il boccaporto alla sommità meglio che potete. Poi picchiate tre colpi sul ponte. Lasceremo entrare l’aria. Ce la fate?
— Sì, certo.
— Potete portare con voi tutto l’ossigeno che vi è rimasto? Non vorremmo restarne a corto durante il viaggio di ritorno. Dovremmo averne a sufficienza, ma se ce n’è altro, è meglio.
— Lo faremo. Ci resta un solo cilindro, aperto da poco.
— Un’ultima cosa, prima che ve ne andiate. Abbiamo a bordo… un’attrezzatura segreta, nascosta dietro una semplice tenda. Vorremmo pregarvi di non avvicinarvi a essa.
— Avete la mia parola — disse il colonnello, ergendosi orgogliosamente. — E i miei ufficiali vi daranno la loro. — Guardò l’uomo dalla faccia lunga che gli sorrideva attraverso l’oblò e, per la prima volta, la grandezza di quel salvataggio in extremis lo colpì. — Vorrei ringraziarvi a nome di noi tutti, per averci salvati.
— Noi siamo lieti di trovarci qui. E lietissimi di avervi aiutato. Ora…
— Torneremo tra pochi minuti.
Quando fu vicino alla capsula, il colonnello vide due facce che lo fissavano attraverso l’oblò, una accanto all’altra e schiacciate contro il vetro, come quelle di bambini davanti alla vetrina di una pasticceria. Fu sul punto di sorridere, ma si trattenne.
— Indossate le tute — disse, quando ebbe attraversato la camera stagna. — Ce ne andiamo a casa. Quei danesi ci portano con loro. — Poi accese la radio e afferrò il microfono, per porre fine alle domande incoerenti dei compagni. La banda lontana ora suonava un’altra marcia, che si affievolì e si spense quando partì la sua chiamata.
— Sì, Vostok IV. Vi sentiamo. C’è qualche difficoltà? Il vostro ultimo messaggio è stato interrotto. Passo.
Il colonnello aggrottò la fronte, poi abbassò l’interruttore.
— Qui colonnello Nartov. Questo è il messaggio finale. Stacco e chiudo la comunicazione, ora.
— Colonnello, sappiamo che cosa provate. Tutta la Russia è con voi in spirito. Ma il generale desidera…
— Dite al generale che mi metterò in contatto con lui più tardi. Non via radio. — Inspirò profondamente, tenendo sempre il dito sopra l’interruttore. — Ho il suo numero del Cremlino. Lo chiamerò dalla Danimarca. — Spense e staccò l’energia. Avrebbe dovuto dire di più? Che cosa avrebbe potuto dire? Altri paesi erano in ascolto…
Читать дальше