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John Shirley: La musica della città vivente

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John Shirley La musica della città vivente

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Il tema della città è stato più volte sfruttato in fantascienza, da quelle volanti di James Blish a quelle del lontano futuro di Clifford Simak. Ma nessuno, prima di John Shirley, aveva esplorato con tanta efficacia il mito della città vivente, organismo tipico del XX secolo e dintorni. Se le città hanno davvero un’anima, è possibile che sia maligna? E ammesso che si tratti di organismi senzienti, è concepibile che il rock sia l’equivalente della loro musica delle sfere? Lo scoprirà il lettore in questo thriller metropolitano ante-litteram, il libro che alla fine degli anni Settanta consacrò John Shirley come uno dei più promettenti autori di fantascienza moderna.

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Uno dei molti pompieri che osservavano, stupefatti, dagli automezzi fermi lì davanti, fischiò piano tra sé e sé. L’uomo al suo fianco sorrise di una soddisfazione strana, sognante. — È come un sogno che ho fatto l’altra notte — disse. — Buffo…

— Sì, l’ho sognato anch’io.

L’autopompa, parte di una minuscola folla di veicoli d’emergenza accorsi alla segnalazione della presenza di un demolitore impazzito, era parcheggiata distante dagli altri; motori e luci erano spente, non c’era autista. Ma, senza autista, il veicolo partì e si spostò al centro della strada, sorprendendo i pompieri che si trovavano sulla piattaforma. Si lanciò verso la figura di un uomo che correva sul marciapiedi. Un uomo piccolo, quasi calvo, col cranio lucido inondato di sudore. L’uomo si guardò alle spalle e disse: — Aaak, aughk! — mentre l’autopompa lo travolgeva. Poi, il boss Paglione rese l’anima, e il demolitore smise di demolire e l’autopompa si fermò e una parte particolare della supermente collettiva di Phoenix ripiombò nel sonno.

Diverse centinaia di migliaia di persone, addormentate o in stato di semitrance davanti al televisore, emisero grugniti di soddisfazione. Non sarebbero mai state in grado di spiegare perché erano talmente orgogliose di sé; non sapevano cosa avessero fatto. Ma l’orgoglio c’era, un nido di parassiti era stato distrutto. Phoenix aveva fatto la sua parte.

E a Chicago… E a Sacramento… E a Portland, Seattle, Boise…

…A Manhattan, un gruppo di uomini dall’espressione cupa si stava recando a una riunione su una limousine blindata. La blindatura servì a ben poco quando la macchina, inspiegabilmente, decise di seguire un percorso di testa sua, lanciandosi nel tunnel Lincoln (cioè in una direzione assolutamente sbagliata) a centotrenta chilometri l’ora, mentre i comandi si rifiutavano di rispondere all’autista, terrorizzato. Fu appena fuori dal tunnel, in una zona più ampia, meno affollata, che si scontrarono frontalmente con un’altra limousine.

In seguito, uno spettatore descrisse l’incidente come “spettacolare”.

La seconda limousine, che a sua volta correva fortissimo e di testa propria, conteneva quattro uomini estremamente importanti di Boston, venuti lì per incontrare gli individui con cui si scontrarono. L’incontro fu consumato nel senso più profondo della parola.

…A Houston c’era una torre. Era più alta dell’Ago Spaziale di Seattle, ma in effetti era stata costruita a imitazione dell’Ago Spaziale. Non era molto diversa: semplicemente più alta, più snella, con più vetro, più moderna, cioè edificata in modo nettamente peggiore. Come l’Ago Spaziale, la cupola sporgeva per offrire una panoramica dell’incredibile profilo di Houston e del Golfo del Messico, compiendo tutto il giro in quarantacinque minuti. Quella sera il ristorante non ruotava. Era chiuso. Ed era deserto, fatta eccezione per i sette uomini e le due donne che sedevano a un tavolo, che bevevano e litigavano, che indicavano di continuo il terminale spento vicino al distributore dello zucchero. Il gruppetto dei nove non sapeva di essere solo: nessuno si era ancora accorto che tutte le guardie e il barista se n’erano andati (così come Roscoe e Paglione non avevano scoperto che i loro uomini erano stati fatti allontanare; erano rimasti solo quelli indiscutibilmente colpevoli). Era stata la città a convincerli ad andarsene.

Uno dei nove di Houston alzò una mano per chiedere silenzio e disse al barista, in tono petulante: — Jude, Cristo santissimo, ma perché mai hai messo in moto il ristorante? Mi viene il mal di mare quando questo maledetto aggeggio gira!

Gli altri, sorpresi, alzarono gli occhi verso le luci della città e scoprirono che, ah sì, il ristorante girava sul serio.

Non ci fu risposta da Jude.

— Ehi! — urlò una donna, aggrottando le sopracciglia. — Ehi… — questa volta piano. — Ehi, che merda succede? — E questo perché aveva cercato di alzarsi ed era caduta: il ristorante aveva accelerato di colpo, facendole perdere l’equilibrio. La donna non riuscì mai a rimettersi in piedi. In pochi secondi, le luci della città diventarono scie di meteoriti, poi una striscia compatta di luce. Ormai all’accelerazione di gravità uno, la cupola della torre ruotava più in fretta di quanto non potessero farla ruotare i suoi motori. Andava sempre più in fretta.

Cominciarono tutti a urlare, ma la torre (vorrei poter dire che era di un bel colore avorio, ma non lo era; peccato, avrebbe dovuto esserlo) era troppo alta sulla città perché le urla (e poi gli strilli di panico e poi i gemiti e poi i rantoli e poi niente) si potessero udire in basso, giungessero alle orecchie della popolazione che dormiva.

È sorprendente quello che una buona forza centrifuga può fare alla carne umana. Un’altra prova del fatto che l’insieme di ossa e muscoli non è poi solido come sembra…

…E a Miami… A Biloxi, Atlanta, Los Angeles, San Diego, Detroit…

— Metà della nazione è spaventata — disse Cole a se stesso — e l’altra metà è stupefatta.

— Già. C’è stato il boom delle conversioni religiose — rispose Cole. Perché Cole non stava parlando con se stesso metaforicamente. Aveva di nuovo incontrato se stesso, il se stesso disincarnato che giungeva da un’altra convergenza temporale; si erano fermati a chiacchierare a un nesso probabilistico.

Ognuno dei due sapeva cosa avrebbe detto l’altro, prima che l’altro parlasse, naturalmente. Eppure, era necessario dirlo, e ascoltare. Era una specie di liturgia.

Un Cole stava andando a vedere la propria nascita. L’altro stava andando a guardare il suo primo incontro con Catz Wailen; stava giusto tornando dall’aver visto la propria nascita (e, mentre andava a vederla, aveva incontrato se stesso che tornava dall’averla vista; è secondo questa logica che vengono concepiti i disegni dei tappeti orientali). Erano fermi sul marciapiedi davanti al club Anestesia , che era stato chiuso. Attorno a loro, la città entrava e usciva dallo stato di trasparenza, correnti temporali si incrociavano e dividevano; le persone che camminavano sui marciapiedi sembravano scie luminose proiettate da uno stroboscopio. I due Cole erano solidi, almeno l’uno agli occhi dell’altro.

— Parlando da Cole a Cole — disse uno dei due, protendendosi in avanti — la neutralità della nostra posizione non ti… non ci infastidisce?

— A volte. È vero che a livello somatico avverto pochissimo di questo piano. Se mi pizzico, sento male; ma se batto la mano sul terreno, per me è solo fanghiglia, anche se per loro è cemento. Per cui, uh, questo implica l’esistenza di un livello che io… che noi possiamo raggiungere e probabilmente raggiungeremo, un livello da cui possiamo interagire con l’ambiente in senso fisico, più pieno.

— Andremo a finire lì — convenne l’altro Cole, grattandosi il ventre nudo. Poi fece una smorfia. — Nessuno di noi due porta vestiti… Però ricordo di aver incontrato me stesso quella volta che dovevo liberare Catz dai vigilantes di Oakland, e queir… uh… io era vestito…

— Oh, in un’altra sequenza temporale relativa tu, io, decidemmo di vestirci. Capisci, i vestiti che indossavi di solito erano talmente vicini al tuo corpo che sono rimasti metapsichicamente impregnati dalle, hum, vibrazioni caratteristiche di ciò che tu e io siamo… È così che i sensitivi riescono, per esempio, a capire dove sono le persone scomparse, a ritrovarle toccando un loro indumento… C’è di mezzo l’assorbimento di elettroni con uno spin caratteristico dei campi elettrici dell’individuo… In ogni modo, possiamo indossare i vestiti che portavamo in vita, nell’altra vita, e saranno trasferiti anche loro sul nostro piano.

— Lo sapevo già — disse l’altro Cole. — Non so perché te l’ho chiesto.

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