1) Lui era morto. Defunto.
2) La figura sul letto era il suo corpo, trasmutato e invasato.
3) Dal suo punto di vista attuale, il punto di vista del nuovo corpo (un corpo astrale?), il mondo era una cosa esile, c’era e non c’era. Il mondo gli si svelava nella sua vera natura di illusione transitoria; ma, dal punto di vista di Catz, era lei a essere vera, mentre Cole era morto. Per lei, a tutti gli scopi pratici, lui era morto.
Queste sono tre. Aggiungiamone una quarta.
4) Non era morto. Era vivo; in un nuovo corpo, in un nuovo stato dell’essere. Solo il vecchio Cole era morto.
Era vivo, e in grado di pensare. Però non era più padrone di sé.
Città aveva ucciso il vecchio Cole. Aveva scelto di possedere il suo corpo, già preparato dai rapporti precedenti fra loro. Il corpo di un uomo posseduto da un’intera città: ecco cosa giaceva sul letto.
Catz stava urlando.
Scuoteva le spalle del Cole defunto, cercava di trasmettergli la vita premendogli le mani sul petto. Ma la sue nocche sanguinavano al minimo urto contro il corpo. Catz se ne accorse e indietreggiò, spalancò la bocca, la coprì con dita tremanti. I suoi occhi sbarrati, vuoti, urlavano che aveva capito.
Il corpo nudo sul letto si era tramutato in pietra.
Ma la pietra, animata da Città, poteva muoversi, piegarsi e incresparsi come pelle. La figura sul letto si mosse. Il letto scricchiolò per il peso enorme. Gli occhi restavano chiusi. La figura si alzò. La sua testa ondeggiava in qua e in là, a destra e a sinistra, come un radar che esplorasse la stanza. Lentamente, la figura s’incamminò verso lo specchio della parete opposta, restò immobile a scrutarsi. I suoi lineamenti duri, decisi, non registrarono il minimo cambiamento. Il viso era quello di Cole, l’espressione quella di Città. Il fu Cole alzò le mani a coprirsi gli occhi; la metà superiore del suo viso, adesso, era nascosta dai palmi aperti. Restò in quella posizione per dieci secondi, mentre Catz, orripilata, se ne stava immobile contro la parete, fissandolo boccheggiante. Poi la figura abbassò le mani, e dove un tempo esistevano gli occhi adesso c’erano occhiali da sole, direttamente incorporati nel tessuto della testa. Città si girò a guardare Catz, riempiendo dell’immagine di lei le lenti a specchio. L’espressione di Catz, un disgusto assoluto, venne riflessa due volte. — Catz! — disse Cole. Lei guardò verso il punto in cui si trovava lui, stupita. A quanto pareva, non riusciva a vederlo; però lo aveva sentito. — Non mi vedi?
— Stu? — chiese lei, incerta. — Riesco quasi… C’è qualcosa, ma…
— Catz… — cominciò Cole, e la ragazza alzò di colpo la testa. Lo aveva sentito.
— Stu!
La figura davanti allo specchio, Città, si voltò a guardare Catz. Cole si sentiva addosso quegli occhi. Avvertiva attorno a sé la Città, come un nuotatore avverte qualcosa degli abissi dell’oceano che lo circondano, anche se nuota nell’acqua bassa vicino a riva: risonanze di profondità enormi, lontane. Le piazze della città che risuonavano al passaggio delle macchine e degli uomini, le urla dei bambini…
Città girò la testa, e la sensazione della totalità urbana si smorzò in sottofondo. Città si avvicinò a Catz, protese una mano fredda verso la sua spalla. — Questo non è il tuo posto — dissero le labbra di ferro, sotto un naso che non respirava e le lenti a specchio.
Lei disse qualcosa: — Auh… auh… op… auh… — e indietreggiò, massaggiandosi le dita nei punti che sanguinavano. Poi si voltò, uscì dalla stanza, e Cole la sentì dire: — Mi spiace, Stu.
Qualcosa di caldo lasciò per sempre Cole. Lo stato in cui si trovava era talmente nuovo da procurargli dolore.
Città si girò verso di lui e gli disse: — Va’ dove vuoi. Percorri i meandri dello spazio e i labirinti del tempo. Ma non interferire col mio lavoro. È giunto il momento della Spazzata…
Splendido, Città oltrepassò porte che nascevano dall’incrocio di un piano di splendore con un altro piano di splendore e lasciò Cole solo, con il mondo intero a sua disposizione.
Ognuno degli uomini presenti nella sala riunioni aveva quattro preoccupazioni. A dire il vero, in quel momento tre su sette pensavano esclusivamente alla cena: erano le diciannove e trenta di un giovedì. Gli altri quattro pensavano alla cena e anche agli impegni programmati per la serata (uno, l’avvocato, era in preda a una fantasia sessuale, e con la sinistra teneva viva l’erezione sotto i calzoni); con tutto il distacco possibile, pensavano anche al motivo di quella riunione. Erano stanchi di discutere, e l’argomento che si stava trattando era estremamente doloroso. I sabotatori. Non volevano pensare ai sabotatori (qualcuno sosteneva che si trattasse di un uomo solo, ma era impossibile che il semplice proprietario di un club fosse responsabile di un tentativo di strage, dell’omicidio di diversi vigilantes e della manipolazione di ologrammi che aveva interrotto l’“operazione concerto rock”; a parte un’altra mezza dozzina di fatti inspiegabili, compreso il massacro di uomini e vigilantes causato dall’assurda esplosione di tubature e lampioni) perché le implicazioni della cosa li spaventavano. Fino a poco tempo prima, tutto filava alla perfezione… Quindi, la discussione era passata dalle considerazioni retoriche ai battibecchi, alle ripicche petulanti, ai borbottii vaghi, per concludersi con un coro di sospiri e scrollate di spalle. Il problema, in mancanza di dati ulteriori, non aveva soluzione: bisognava accantonarlo.
Rufe Roscoe non era, naturalmente, soddisfatto dei risultati della riunione. Gli pareva di avvertire una singolare mancanza di decisione. I suoi collaboratori erano vaghi, indifferenti. Bastardi vigliacchi. Forse, rifletté, non dovevano più riunirsi in quella stanza con l’aria condizionata, lassù in alto, perfettamente al sicuro in un palazzo antisismico. Era una specie di grembo materno con vista panoramica; troppo comodo, forse. Ventotto anni fa, quando lui aveva iniziato la carriera, le riunioni si tenevano in stanze miserabili, piene del puzzo di sudore e di fumo, coi rumori del tavolo da bigliardo e della roulette che giungevano dalla stanza adiacente; quell’ambiente insicuro era servito, sempre, a ricordare a tutti che avrebbero potuto salire più in alto, essere meno esposti, ed era stata quella la molla che li aveva spinti. Proprio in una stanza di quel genere lui aveva lanciato il piano dell’imbroglio dei computer, il piano che gli aveva fatto guadagnare il primo milione di dollari.
Lì, invece? Pareti dalle tinte delicate, la musichetta che usciva da un altoparlante nascosto, uno svolazzare di nubi oltre le finestre dai vetri polarizzati… Tutti gli uomini riuniti lì, dal primo all’ultimo, si lasciavano cullare da quella gabbia compiacente, erano convinti della propria invulnerabilità, sguazzavano nella certezza che lì nessuno potesse attaccarli (e nessuno si preoccupava dei due individui mascherati che erano penetrati in una stanza identica a quella, sullo stesso piano, e avevano ucciso l’uomo venuto dall’est: erano state prese nuove misure, misure estremamente complicate, e un fatto simile non avrebbe mai potuto ripetersi). Erano sicuri.
La porta della sala riunioni, chiusa a chiave, schizzò via dai cardini e si abbatté sulla minuscola schiena orientale di Fred Golagong, spezzandola in tre punti e uccidendo all’istante Golagong.
Nonostante il panico, Rufe Roscoe pensò: “È quello che ci voleva per questi bastardi vigliacchi…”. Mentre l’uomo apparso sulla soglia (e anche se Roscoe non lo aveva mai incontrato di persona, non era uno sconosciuto: era la figura familiare uscita da un sogno bizzarro e ricorrente) correva avanti, con l’energia e la velocità di una macchina, a fracassare il tavolo. Colpi di pistola esplosero da tre direzioni diverse, uno dal corridoio esterno, e si udirono grida terrorizzate di uomini. Uno solo di quegli strilli era razionale, ed era quello di Rufe Roscoe: — Che cavolo di fine hanno fatto tutte le nostre guardie e i nostri sistemi di allarme? — Il che fu l’ultima cosa che disse in quel particolare ciclo esistenziale, dato che l’uomo con gli occhiali da sole e le braccia massicce come ponti levatoi lo uccise, pochi secondi dopo, con un solo colpo.
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