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John Shirley: La musica della città vivente

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John Shirley La musica della città vivente

La musica della città vivente: краткое содержание, описание и аннотация

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Il tema della città è stato più volte sfruttato in fantascienza, da quelle volanti di James Blish a quelle del lontano futuro di Clifford Simak. Ma nessuno, prima di John Shirley, aveva esplorato con tanta efficacia il mito della città vivente, organismo tipico del XX secolo e dintorni. Se le città hanno davvero un’anima, è possibile che sia maligna? E ammesso che si tratti di organismi senzienti, è concepibile che il rock sia l’equivalente della loro musica delle sfere? Lo scoprirà il lettore in questo thriller metropolitano ante-litteram, il libro che alla fine degli anni Settanta consacrò John Shirley come uno dei più promettenti autori di fantascienza moderna.

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John Shirley

La musica della città vivente

Prologo

Nello studio di registrazione, la ragazza si aggiustò la cuffia sulle orecchie e fece un cenno al tecnico. Questi, che si trovava dall’altro lato della cabina di vetro, annuì e premette il pulsante che avrebbe fatto risentire diverse ore di musica registrata.

Il primo pezzo, un rock duro improvvisato (in uno stile comunemente definito angoscia rock ), era stato registrato qualche settimana prima. La ragazza era la cantante solista della band. Era la prima volta che sentivano i nastri dopo il mixaggio: per prima cosa avevano dovuto racimolare i soldi per pagare l’affitto dello studio. La ragazza non aveva ancora un contratto per incidere il disco. Forse, non l’avrebbe mai avuto.

Si chiamava Sonja Pflug, ma il suo nome d’arte era Catz Wailen. Ormai tutti la chiamavano Catz, persino quelli della sua famiglia. Catz ascoltò il nastro per due minuti, e poco alla volta le labbra le si piegarono agli angoli, rughe le solcarono la fronte. Si agitò sullo sgabello. Non riusciva a mettersi comoda su quello sgabello di plastica, lì nello studio. Era tesa, e la sua tensione cresceva di secondo in secondo. Continuando ad ascoltare il nastro, scosse piano la testa. Batté sul vetro che separava la sala registrazione dalla sala controllo, e il tecnico fermò il nastro. Catz abbassò un interruttore e parlò nel microfono dell’intercom.

— Si sente una voce che parla sotto la musica. Non è roba che abbiamo inciso noi. Non mi sembra qualcuno del gruppo. Non riesco a capire cosa dice. Che cavolo è? Una voce… Che accidenti significa, uomo? Eh? E dai. Sarà un cb o qualche altra puttanata del genere che è riuscita a filtrare nell’isolamento acustico dello studio. Oh, insomma, se vogliamo toglierla dai nastri bisognerà identificarla con precisione, se no come facciamo a levarla? Dobbiamo scoprire su che frequenza parla, e che cavolo vorrebbe… Senti, l’aria è impregnata di trasmissioni, radio e tv e microonde, e ci penetrano di continuo, di nascosto… C’è l’etere che ci gira attorno, ne parlavano gli scienziati dei vecchi tempi, ed è diventato il medium ideale per le cose più insipide. Okay? Insomma, alla nostra musica si deve essere mischiato qualcuno che faceva una trasmissione idiota, magari la pubblicità della birra. Lo sento. C’è sul serio. Mixa, remixa. Voglio sentirlo meglio, capire cos’è, se è una radio o che altro, se è un fottuto radioamatore col suo numero di chiamata… Ci ha rovinato il nastro… Oh, okay? L’hai isolato? Si sente bene? Okay… Adesso…

Catz si rimise la cuffia, fece segno al tecnico di far partire il nastro.

E la voce sul nastro, che adesso si udiva benissimo sopra il tuono della musica, disse: — Ciao, Catz. — E poi rise. Una risata folle. — Spero che tu mi senta chiaramente. Gli altri, qui, hanno avuto i loro alti e bassi nel far sentire le loro voci nel tuo mondo. I morti non hanno laringe. Per lo meno, non la possediamo dal vostro punto di vista, perché dal nostro… — S’interruppe per ridere. Nella voce c’era sempre una punta d’isterimo.

— Scusa. Ogni volta che penso ai punti di vista mi viene da ridere, per via di quello che è successo. Per come vedo le cose adesso. E per come le vedevo allora. Prima della Grande Spazzata. Prima che vedessi la grande mente. La grande mente è la mente di tutti. Ma ora devo organizzarmi per te. Ho camminato… Camminato?… Sì perché io ho un corpo, dove mi trovo adesso. Dal tuo punto di vista, non ho corpo. Organizzarmi. Devo entrare nello stato d’animo giusto per raccontarti questa storia, perché… Devo raccontarla dal… ehm… dal punto di vista del tuo mondo. Sono giorni che cammino e ci penso, che rivivo tutto nella mente, che torno indietro a guardarmi… indietro nel tempo, intendo: perché giocare con le parole?… a guardarmi mentre vivo tutto questo. Per rivedere tutto con chiarezza. Ho un sacco di tempo per rivedere con chiarezza, perché resterò vicino al tuo mondo per altre quaranta ore relative. Sono quasi nel tuo mondo, ma non completamente. Mi trovo leggermente spostato di fase, capisci? Sono qui per via di Città e degli altri. Li aiuto tutti. Sono legati fra loro, in un punto o nell’altro della catena. Le supermenti di ogni città che si uniscono in un unico fulcro comune… New York, San Francisco, Los Angeles… Però quella di Los Angeles è così disgregata, frammentaria, aggressiva… Tutte le città, tutte, unite fisicamente. È un bel posto, ed è un posto orribile, questo grande serbatoio mentale. Sei bella, Catz. Non credo di avertelo mai detto. Sei bella. Avrei sempre voluto dirtelo. Ma pensavo che ti saresti messa a ridere, che avresti risposto che ero sdolcinato, oppure cieco. Mi avresti preso in giro. Ma adesso le cose sono diverse. Adesso posso dirti che ti amo.

“E posso dirti perché ho fatto quello che ho fatto. Perché ti ho lasciata andare a Chicago. Lo sapevo che saresti entrata in contatto con la mente che è Chicago. Su un livello o sull’altro, ho sempre saputo cosa sarebbe successo. Adesso io servo a uno scopo, Catz.

“Cristo, Catz, sei bella. Riesco a vedere in te, nel tuo campo di energia. Vedo il punto focale dove si trova il tuo… come lo chiamavano?… centro di coscienza. Lo vedo risplendere in te come risplende un arco in un tubo a gas rarefatto.

“Spero che tu riesca a riconoscere la mia voce. Sto usando una specie di psicocinesi per creare le onde sonore esatte. Spero di sembrarti sempre io. È un po’ come fare il ventriloquo fra una dimensione e l’altra, più o meno. Mi senti? Sono Stu! E se no, chi potrebbe essere, giusto?”

Catz si tolse la cuffia. Fece un cenno al tecnico. Il tecnico fermò il nastro. Catz, pallida, gli occhi sbarrati, restò a fissare il quadro di comando. Si alzò, prese la borsetta, ne tolse un flacone di medicinali. Ingoiò un calmante e una boccata d’aria. “È proprio lui”, pensò.

Tornò allo sgabello, afferrò la cuffia. Se la rimise in testa. Esitò. Restò immobile un minuto, per convincersi che doveva andare fino in fondo. Fece un segnale al tecnico, e si mise ad ascoltare.

— Voglio che tu mi capisca, Catz. Che capisca perché non potevo venire con te. Perché ho lasciato fare a Città quello che ha fatto.

“È buffo, ma il tempo non significa niente per chi possiede un corpo etereo. Una volta imparate le strade del labirinto, si può viaggiare in una direzione o nell’altra. Possiamo assistere alla nostra nascita. Io, invisibile, mi sono sistemato accanto al letto d’ospedale di mia madre e mi sono visto nascere! Mi sono visto crescere. Voglio tornare indietro a rivedere tutto. A essere di nuovo testimone, testimone oggettivo. Ti racconterò questa storia, anche se tu l’hai vissuta quasi tutta. Spero di poterla dire dall’inizio alla fine sul tuo nastro. Comincerò con quella sera al club, la seconda sera della tua tournée a San Francisco. Eri appena rientrata da Chicago. La sera che ti ho chiesto di frugare con le tue doti psi l’uomo che volevo assumere come buttafuori. Sto entrando nello stato d’animo necessario. Lo sento. La terza persona. Io sono la terza persona, sì.”

La voce rise. Catz trasalì. Una voce leggermente folle.

— Più o meno, era il dieci maggio del 1991. Nella cara, vecchia San Francisco… Quella che era allora San Francisco, prima dei cambiamenti, della Spazzata, e… non importa. Buffo. Non molto tempo fa, relativamente al mio senso soggettivo del tempo, mi sono trovato al centro di un’esplosione che faceva parte della Spazzata. Una casa mi è scoppiata addosso. Non ho provato dolore. Mi è piaciuto. È stato come fare il bagno in un mare agitato. Ma c’era anche un senso di orrore…

“Adesso mi sono organizzato. Torno indietro. Ellis Street. Il club Anestesia. Il mio club, a dispetto di tutto quello che ne dicevano. Il Chronicle ha scritto: ‘…Zero per cento se cercate un’atmosfera umana ed estetica, cento per cento se cercate un frastuono interminabile, scazzottature, tipi eccentrici, prostitute e delinquenti’. All’inferno il Chronicle. Era il mio club, e io lo amavo…”

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