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John Sladek: Il sistema riproduttivo

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John Sladek Il sistema riproduttivo

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Classico romanzo d’automazione, ma anche di indiavolato divertimento, ha considerato John Sladek fra i grandi della fantascienza e la sua pubblicazione in questa collana non poteva mancare. Molte volte la SF si è occupata di macchine, ma mai con il vigore e l’astuzia di questo grande libro: infatti, che cosa accadrebbe se un giorno venisse inventata la macchina capace di figliare? Un interrogativo che quando il romanzo fu scritto sembrava del tutto utopico e futuribile, ma che oggi, in tempi di robot industriali, ha assunto un nuovo, sinistro colorito senza perdere nulla dell’originario divertimento. Se le macchine di tutto il mondo trovassero davvero il sistema di riprodursi da sole, qualcuno, sulla Terra, sarebbe di troppo…

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(4) Riuscito, ma di discutibile importanza militare. I risultati sono stati pubblicati separatamente come Mil-P-980089, PROTESI CAUDALI.

«Proprio non lo capisco,» disse Cal, posando il saldatore. Sebbene stesse parlando con Louie Wompler, tutti i tecnici dell’Esercito e della Marina che stavano intorno a loro alzarono la testa, pronti ad approfittare dell’occasione per fermarsi e chiacchierare. Louie se ne stava seduto, con la fronte aggrondata e con un pezzo di carta piegato tra le mani.

«Neanch’io,» disse. «Qui c’è qualcosa che non va. Dovrebbe agitare le ali quando faccio così, ma stia a vedere.» Tirò un lembo, e il quadrato di carta si aprì. Era una pagina d’una rivista di cucina, con la foto di un manicaretto.

«Volevo dire che non capisco il dottor Smilax. Cosa ci fa tutto il giorno, solo là dentro? Non può continuare a lavorare sul Quidnac; pensavo che l’avesse già finito da un pezzo, quando è venuto qui. Perché non possiamo mai vederlo né parlargli? Che faccia ha?»

L’appuntato Martin alzò gli occhi dal diagramma di un circuito. «Sta scherzando?» disse, cacciandosi una Lucky nell’angolo dell’ampia bocca contratta. «Ne ho sentite di tutti i colori sul conto del Vecchio.» Si guardò intorno e si chinò verso Cal. «Ho saputo che fa a pezzi i gattini su quel gran tavolo bianco, là dentro… giusto per divertirsi. Ho sentito dire che è un ciarlatano. Ho sentito dire che non è un vero dottore, solo un chiroterapista che una volta ha salvato la vita a un senatore, e per questo gli hanno dato questo lauto impiego. Ho sentito dire che se ne sta seduto là dentro tutto il giorno a imbottirsi di droga. Ho sentito dire…»

«Stupidaggini!» sputò un tecnico della Marina, con le maniche rimboccate che mettevano in mostra tatuaggi di personaggi di Walt Disney. «La verità è che lui è un russo. Tutte queste precauzioni della Sicurezza sono per impedire che gli altri russi vengano ad assassinarlo. La verità è che ha inventato il sistema per trapiantare cervelli di scimmie nelle teste dei bambini.»

Poi parlò uno scrittore tecnico borghese. Era autore di un famoso manuale militare, L’elevatore a forcone. «A me risulta,» disse cautamente, «che il dottor S. era un famoso chirurgo. Ma mentre operava la madre del Presidente, qualcosa è andato storto. Hanno insabbiato tutto, naturalmente, ma da allora è praticamente in pensione.»

Altri dei presenti li sentirono e si avvicinarono per dire la loro.

«Io ho saputo che i fratelli Frankenstein erano nati attaccati per la testa. Lui li ha separati. Ma ogni tanto gli vengono degli attacchi di mania omicida…»

«… nel racket degli aborti clandestini, vi ricordate? Ne hanno parlato tutti i giornali…»

«Dicono che in Russia avesse scoperto come guarire il cancro, ma poi è stato colpito alla testa e ha perso la memoria…»

«Panpepato,» sospirò Louie guardando l’illustrazione. Sembrava ignaro della discussione che infuriava attorno a lui. «E non posso mangiare dolci, finché mi alleno per l’Origami.»

«… e l’ASPCA scatenerebbe l’inferno se scoprisse quello che sta facendo. Per questo…»

Cal finì il suo lavoro e uscì nel corridoio per allontanarsi dal turbine di teorie sensazionali sul conto di Smilax. Le notizie certe sul conto dell’uomo che stava oltre quella porta proibita si riducevano a zero. Eppure, perché tutte le voci che correvano sul suo conto avevano sfumature orripilanti? Perché nessuno lo vedeva come un vecchio eremita innocuo? Perché tutte le dicerie includevano paradigmi di crudeltà, di demenza, di megalomania? Era come se… ma nessuno poteva mettere in giro voci del genere sul proprio conto. Sul proprio conto? Per un momento Cal si chiese se esisteva davvero un individuo «T. Smilax, M.D.» Cal appoggiò l’orecchio alla porta proibita e ascoltò.

Gli giunse un ronzio meccanico fievole e acuto. Sembrava il rumore di mille trapani da dentista che lavorassero in sordina su mille denti cariati. Il rumore si interruppe per un momento, e Cal udì un altro suono: il guaito di un cagnolino sofferente. Non appena questo incominciò, il ronzio meccanico ricominciò, soffocandolo.

Quando Cal rientrò in laboratorio, Karl gli disse: «La stavamo appunto cercando.»

«Siamo pronti per una prova,» spiegò Kurt. Rimasero ritti, con le cartelle in mano, ai due lati del tavolo da laboratorio, mentre Cal effettuava gli ultimi assestamenti e attivava il sistema.

Era una serie di scatolette di metallo grigio, ognuna delle quali aveva all’incirca le dimensioni d’un pacchetto di sigarette, ammucchiate alla rinfusa in un cubo alto una sessantina di centimetri. Quando l’interruttore che spuntava in cima a ciascuna scatoletta veniva fatto scattare, irradiava a tutte le altre un segnale modulato di avviamento; e per spegnerle si usava lo stesso metodo.

Non appena ogni scatoletta si attivava, cominciava a correre sul tavolo sulle sue rotelle orientabili, evitando di scontrarsi con le sue simili. Quando tutte le scatole erano in movimento, creavano l’illusione di un complicato moto browniano sulla superficie scura del tavolo, di cui esploravano ogni centimetro quadrato.

Kurt e Karl posarono sul tavolo vari pezzetti e frammenti di metallo. I pezzi più piccoli venivano immediatamente divorati dalle singole scatolette, ma le barre più grosse attiravano l’attenzione dell’intero branco. Ormai diventate grandi come pacchetti di sigarette king-size , si buttavano sulle barre come formiche, lavoravano con cesoie e torce minuscole… e ingrossavano.

A Cal dava i brividi guardarle mentre si ingozzavano ordinatamente.

«Qualcuno ha un orologio?» chiese Karl, fissando intento la catena che ornava il panciotto di Hita. Il matematico sospirò.

«E va bene,» disse, consegnando l’orologio a calotta. «Ma ci stia attento, per favore. È un orologio antico, con carica di otto giorni. Un pezzo insostituibile.»

Karl lo fece dondolare per la catena al di sopra del tavolo. Le scatole cominciarono a fremere e a modificare i loro movimenti a casaccio. Si radunarono sotto l’orologio. Karl lo faceva dondolare dolcemente, e il branco grigio reagiva, seguendone eccitato i movimenti. Cominciarono ad arrampicarsi l’una sull’altra, ad ammucchiarsi in una piramide ondeggiante e barcollante, protendendosi verso il corpo metallico dell’orologio, verso il suono del suo cuore ticchettante. Il mucchio grigio cominciò a tremare, di riflesso.

Ogni volta che stavano per raggiungere l’orologio, Karl lo alzava un po’ di più. La sua faccia infantile aveva un’espressione di concentrazione estatica e crudele, mentre stuzzicava la piramide, che diventava più alta e più sottile. Cal vide le scatolette delle file più basse aggrapparsi con gli estensori le une alle altre per consolidare il mucchio. Karl alzò l’orologio una terza volta, una quarta.

La scatoletta più in alto, reggendosi su uno spigolo, si aprì come una minuscola valigia. Due esili verghette si protesero verso l’alto.

«E quelle cosa sono? Sembrano antenne radio d’un’automobile,» disse Louie.

«Stia attento!» urlò Hita. «Sta cercando di agguantarlo!»

«No,» gli assicurò Karl. «Stia a vedere questo.»

Le due verghette passarono oltre all’orologio e salirono uno, due anelli della catena; poi si fermarono. Alcune scatolette si misero a «bere» alla presa di corrente diretta situata sul tavolo e formarono una catena da questa alla piramide. Vi fu un improvviso lampo sfrigolante di luce e l’orologio cadde: la piccola valigia aperta l’afferrò, ritirò immediatamente le corna protese e si richiuse.

«Ehi! Ridammelo!» Il matematico afferrò la scatoletta colpevole e la scosse. Cercò di aprirla a forza, poi la scosse di nuovo.

«Ahi!» All’improvviso la scatoletta piombò sferragliando sul tavolo, cominciò a correre in giro pazzamente e si perse tra le compagne. All’estremità dell’indice di Hita c’era una goccia di sangue. «Mi ha morso!» esclamò incredulo il giapponese.

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