Il secchio dell’acqua da bere, vuoto, mi diede la scossa quando lo presi per riempirlo. Elettricità statica, la chiamava Tom, ma per quanto sì sforzasse, non era mai riuscito a farmi capire il fenomeno: qualcosa di simile a milioni di minuscoli fuochi che si muovono in cerchio (certo ricorderete che bella spiegazione del fuoco mi aveva dato!)… e i cavi tesi fra i tralicci come quello degli Shanks avevano portato l’elettricità da ogni parte e fatto funzionare tutte le macchine automatiche dei vecchi tempi. Una simile energia, da piccole scosse come quella che avevo appena provato.
Mentre andavo al fiume, nel vivido sole del mattino, sembrava che ogni cosa fosse imbottita di colore, come se l’elettricità statica fosse una cosa che riempiva tutto e lo rendeva più splendente. I peli sulle braccia mi si rizzavano; sentivo le radici nello scalpo, mentre il vento mi agitava qua e là i capelli. Elettricità statica… forse negli esseri umani si raccoglieva nello stomaco. Al fiume entrai in acqua fino alle ginocchia, tuffai la testa sotto la superficie, feci gargarismi, con la speranza che l’elettricità si disperdesse nell’acqua e se ne andasse. Non funzionò.
Adesso ero completamente sveglio. Piccole onde si aprivano a ventaglio sulla superficie dell’acqua, una dopo l’altra, spingendola a mare. Già l’aria era calda e secca, pareva che presto sarebbe diventata ardente. Il cielo era di un celeste brillante. Bevvi mezzo secchio d’acqua, tirai sassi a un tronco caduto, impigliato nella riva opposta. Che fare? In alto i gabbiani volavano in cerchio, battevano le ali lamentandosi per la fatica che erano costretti a fare nel vento contrario. Tornai a casa e mangiai con Pa’ una pagnotta.
«Cosa fai oggi?» mi chiese Pa’.
«Vado a dare un’occhiata alle trappole. Così m’ha detto il vecchio Mendez.»
«Sarebbe una bella novità rispetto al solito pesce.»
«Già.»
Pa’ mi guardò, arricciò il naso. «Ultimamente non chiacchieri molto. Annuii, troppo turbato per prestargli attenzione.»
«Non vuoi fare in modo che la gente ti parli» continuò.
«No. Meglio che vada, però.»
Tornai al fiume, pensando di andare comunque a controllare le trappole. Mi sedetti sopra uno dei minuscoli promontori che sporgono a picco sulla riva. A valle, le donne comparvero a una a una, il gruppo Mariani e le altre; approfittavano del Santa Ana per fare il bagno e per lavare abiti, lenzuola, coperte, asciugamani, qualsiasi cosa potessero portare al fiume. L’aria era un po’ più calda a ogni minuto e talmente secca da sentirla nelle narici. Le donne tirarono fuori il sapone e si spogliarono; si mossero nell’acqua bassa della curva, portando assi da bucato e ceste di abiti e di panni; si misero al lavoro, chiacchierando e ridendo, tuffandosi nel centro del fiume per sguazzare un poco e togliersi il sapone di dosso. Il sole del mattino si rifletteva sui corpi bagnati e sui capelli incollati alla testa; avrei potuto restare a guardarle ancora, tanto erano bianche e snelle. Pensai che sembravano un gruppo di delfini; si schizzavano acqua addosso, dondolavano le tette, mentre strofinavano i panni sull’asse da bucato, a bocca aperta per ridere e sorridere al cielo. Ma mi avevano visto, seduto più a monte; presto, se fossi rimasto, mi avrebbero tirato sassi, avrebbero alzato le gambe per mettermi in imbarazzo, avrebbero gridato frasi scherzose come: «Ehi, non ti liscia niente contropelo?» Oppure: «Ti serve aiuto, con l’affare?» O anche: «Attento che non ti si consumi come questo pezzo di sapone»…
E poi, comunque, avevo altre cose per la mente; diedi loro un’ultima occhiata, mi girai e risalii il fiume; dimenticai le donne e cominciai di nuovo a preoccuparmi. (Ma loro cosa avrebbero pensato?)
Capite, potevo non dirgli niente. Potevo dirgli: “Steve, non ho scoperto niente e non so come fare”. E finirla lì. Venerdì sarebbe arrivato e passato, non ci saremmo mai accorti della differenza. Almeno, loro non se ne sarebbero accorti. E tutto sarebbe continuato come prima. Nel percorrere il sentiero del fiume mi venne proprio quest’idea; e mentre andavo da una trappola all’altra, la meditai. Per certi versi mi andava a genio.
Ma ricordai lo scontro con Add: mi aveva sbattuto contro un albero, quando lui aveva il coltello e io no. Tolsi un coniglio dal laccio e risistemai la trappola. Ricordai la fuga dalla nave giapponese, la nuotata a riva, la fatica per risalire il canalone. Adesso mi sembrava una grande avventura. Ricordai l’arrampicata sulla parete della casa degli Shanks per origliare la conversazione con gli sciacalli e il silenzioso pedinamento di Addison nei boschi. Mi era piaciuto più di qualsiasi altra cosa fosse mai successa a Onofre. Non avevo mai sentito in me un potere del genere. Più che mai mi parve che questi avvenimenti non mi accadessero per caso, ma che fossi io stesso a provocarli, che decidessi io di fare certe cose e che poi le facessi. E adesso avevo l’occasione di fare qualcosa di meglio, di combattere per la mia terra perduta. La terra su cui camminavo era nostra, l’unica cosa che ci fosse rimasta. Ne stessero lontano o sopportassero le conseguenze! Non eravamo una vetrina di mostruosità, una versione in grande delle fiere degli orrori che a volte venivano ai raduni ed esibivano patetiche vittime delle radiazioni, umane e animali… Eravamo una nazione, una nazione viva, comunità vive in una terra viva, e dovevano lasciarci in pace.
Così quando tornai nella valle attraverso la strettoia, lasciai perdere tre conigli e una moffetta puzzolente e continuai fino alla casa dei Nicolin. Steve, davanti alla casa, gridava furiosamente contro sua madre, ferma sulla soglia. Qualcosa che riguardava ancora John, mi parve di capire; qualcosa che lui aveva detto o fatto per irritare Steve… Trasalii e attesi che Steve smettesse di gridare. Quando si diresse allo scogliera, lo avvicinai.
«Cosa c’è?» disse, vedendomi.
«Ho scoperto la data!» esclamai. S’illuminò. Gli raccontai tutto. Al termine, provai una sorta di brivido; be’, gliel’ho detto, pensai. Non avevo preso la decisione, era stata automatica.
«Magnifico» continuò a ripetere Steve. «Magnifico. Adesso li abbiamo in pugno! Perché non me l’hai detto?»
«Te l’ho appena detto» risposi, irritato. «L’ho saputo solo ieri.»
Mi diede una manata sulla schiena. «Andiamo a riferirlo a quelli di San Diego. Non c’è molto tempo… un giorno, uau! Forse dovranno far venire altri uomini dal sud, o chissà cosa.»
Ora che gliel’avevo detto, però, ero più incerto di prima che fosse la cosa giusta. Era stupido, ma era successo. Scrollai le spalle.
«Vai tu a dirglielo; io informerò Gabby, Del e Mando, se li vedo.»
«Be’…» piegò curiosamente la testa. «Certo. Se vuoi così.»
«La mia parte l’ho fatta» replicai, sulla difensiva. «Se ci andiamo tutt’e due, rischiamo di attirare l’attenzione.»
«Forse è vero.»
«Fatti vedere stasera e dimmi cosa ne pensano.»
«D’accordo.»
Quando si presentò, quella sera, il vento soffiava più forte che mai. I rami del grosso eucalipto sbattevano l’uno contro l’altro, le foglie crepitavano e cadevano volteggiando su di noi. I pini borbottavano il loro accordo più basso e si agitavano contro le vivide stelle.
«Indovina chi c’era, al loro campo» mi disse Steve. Non stava nella pelle per l’eccitazione. «Indovina!»
«Non so. Lee?»
«No, il Sindaco! Il Sindaco di San Diego.»
«Davvero? Cosa ci faceva, lì?»
«È qua per combattere i musi gialli, naturalmente. Era contentissimo, quando gli ho detto che potevamo guidarli al punto di sbarco. Mi ha stretto la mano, abbiamo bevuto insieme un bicchiere di whisky, e tutto il resto.»
«Logico. Gli hai detto il luogo?»
«Certo che no! Mi prendi per uno stupido? Ho detto che fino a domani non avremmo avuto la conferma e che li avremmo informati dopo esserci uniti a loro. Così saranno obbligati a portarci con sé, capisci? A dire il vero, ho detto che solo tu conosci il punto esatto dello sbarco e che non vuoi rivelarlo a nessuno.»
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